sabato 18 aprile 2015
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La colpa e il debito sono grandi temi della vita di tutti. In tedesco sono quasi la stessa parola: schuld e schuldig. Nasciamo innocenti, e possiamo restarci tutta la vita. Come Giobbe. La morte di ogni bambino è morte innocente, ma anche molte morti di vecchi sono altrettanto innocenti. E Dio, diversamente dagli idoli, deve essere il primo ad "alzare la sua mano" in nostra difesa, a credere nella nostra innocenza contro tutte le accuse dei nostri amici, delle  politiche , delle religioni, delle teologie. Le prigioni continuano ad essere piene di schiavi accusati di debiti inesistenti, e i carcerieri ad arricchirsi trafficando con le loro vittime innocenti anelanti liberazioni. Dopo il primo ciclo di dialoghi tra Giobbe e i suoi tre "amici", entriamo ora in un nuovo atto del libro, quando ciascun amico a turno riprende la parola per ripetere, esasperandole, le proprie critiche, accuse, teorie, prediche. E Giobbe, al centro della scena sul mucchio di letame, continua a fare domande più grandi, ad attendere risposte diverse. La sua pazienza non la esercita verso Dio (nei cui confronti è radicalmente impaziente) ma verso i suoi "amici". Dopo aver assistito alle risposte di Giobbe, anche Elifaz, l’amico che aveva preso per primo la parola (cap. 4), diventa aggressivo e attacca: «Con sproloqui di vento, con ventre gonfio di vento di levante, ammucchiando parole vuote, blaterando. Parla così un saggio?» (15,1-3). Esplicita la sua accusa: «Tu distruggi il timor di Dio, tu annulli la preghiera» (15,4). E aggiunge: «Può mai essere puro un uomo? Può essere giusto chi è nato da donna?» (15,14). Giobbe risponde: «Quante cose ho sentito come queste, mi stomacate consolatori. Parole di vento, e basta» (16,1). E ribadisce il suo capo d’accusa: «Ero felice e mi hai fracassato, mi ha preso per il collo e mi ha hai spaccato in due» (16,12).

In questa nuova variante del tema dominante del canto disperato di Giobbe – io sono innocente, è Dio che deve spiegare che cosa sta facendo con me e con tutta la ingiusta sofferenza della terra – troviamo incastonate delle perle preziosissime. Giobbe, non pago ed esasperato dalle risposte banali finora ottenute dagli amici sul silenzio di Dio, continua a chiedere un arbitro e giudice neutrale che possa provare la sua innocenza e quindi emanare la sentenza giusta: «Se c’è nelle altezze di Dio il mio testimone, e nelle altezze il mio difensore… giudichi lui tra un uomo e Dio, come si giudica tra due pari» (16,19-21). E così, dopo aver fatto ricorso al linguaggio del diritto processuale, ora Giobbe passa al registro commerciale. Invoca la figura del mallevatore, chiede a Dio di fargli una fideiussione: «Designami un garante presso te stesso, chi, altrimenti, sarà il mio mallevatore?» (17,3). Il mallevatore era colui che con la propria reputazione o patrimonio garantiva un debitore di fronte al suo creditore, associandosi alla sua responsabilità in caso di insolvenza – un istituto simile alla nostra fideiussione. Il mallevadore si impegnava in solido col debitore, garantendo per lui, con un’alzata di mano (manum levare: mallevare). È allora molto forte e tremenda questa preghiera di Giobbe – il libro di Giobbe offre molte preghiere diverse e splendide, soprattutto per coloro che hanno esaurito le proprie e ne cercano altre più vere. Sfinito dal dolore, dalle non risposte, dai discorsi accademici degli amici, Giobbe alza un nuovo grido a Dio: fammi tu da garante, alza la tua mano per me! Ma come è possibile che Dio, il creditore, possa essere anche il garante per il debitore (Giobbe)?

Ci troviamo qui di fronte ad un altro passaggio stupendo. Con i suoi occhi appannati ma che avevano guadagnato una vista diversa, Giobbe prova a intravvedere dentro il Dio di tutti un Dio più nascosto, più profondo e vero di quello che aveva imparato da giovane. Ci deve essere un volto di Elohim che sta dalla parte del povero ingiustamente oppresso, disposto ad alzare la mano per lui. Giobbe sta chiamando Elohim a diventare ciò che non sembra ancora. Se il Dio biblico è chiamato giusto, buono, lento all’ira, misericordioso, è allora possibile rivolgersi a un volto di Dio senza negare gli altri. E cercare un nuovo volto – «Il tuo volto, Signore, io cerco» (Salmo 27). Ogni preghiera, se non è magia né frutto della paura di Dio o del vivere, è chiamare qualcuno per nome, chiedergli di diventare qualcosa che non è ancora – e noi con lui. Giobbe è accusato di insolvenza, e stato messo sul lastrico da debiti inesistenti imputati a lui. Nel mondo antico (e ancora oggi) per debiti non pagati si diventava schiavi, e non raramente si moriva in prigione. Dal fondo del suo carcere, Giobbe grida  verso il cielo: Tu sai – almeno un lembo di te deve sapere – che l’accusa che mi ha condotto qui non è vera, che i miei debiti sono solo false accuse. Lo dimostrerò, anzi tu dirai a tutti le ragioni vere della mia bancarotta; ma ora, nell’abbandono, ti prego: fammi tu da garante. Alza la tua mano per me. Almeno tu – volto diverso dell’unico Dio – dammi fiducia!

È forte questa richiesta estrema di fiducia, che molti giusti elevano ogni giorno. Il mondo, fuori e dentro le carceri, è pieno di innocenti che ripetono la preghiera di Giobbe: se sono giusto – e io so di esserlo, e non voglio smettere di credermi innocente perché lo sono – ci deve essere, sulla terra o in cielo, qualcuno che mi crederà, qualcuno che mi darà credito! Troppe volte questo mallevatore delle vittime giuste non c’è, o non si trova, non risponde.

Giobbe grida, continua a gridare, anche per chi il garante non lo ha mai trovato. Mentre sfinito si trova nel fondo del pozzo dell’umiliazione estrema, Giobbe risente dentro quella antica voce: «Eppure non c’è violenza nelle mie mani, ed è sincera la mia preghiera» (16,17). Se Giobbe avesse ceduto alle richieste degli amici e ammesso la sua colpevolezza, non avrebbe consentito a Dio di poter diventare il garante di ultima istanza dei poveri e delle vittime. La fede di Giobbe in un Dio diverso e più umano ha costretto Dio, attraverso tutti i libri della Bibbia e lungo la storia, a mostrare un suo volto diverso e nuovo. Giobbe non sta, allora, allargando soltanto l’orizzonte dell’umano buono amico di Dio: ha allargato anche l’orizzonte di Dio con gli uomini. Se è vero che l’uomo nel rapporto con il Dio biblico ha imparato a diventare più uomo, è anche vero, paradossalmente, che nel rapporto con gli uomini il Dio biblico ha "imparato" a mostrarsi all’altezza delle sue promesse più alte. Il Dio dei filosofi non ha nulla da imparare dalla storia, ed è quasi sempre inutile alla vita dei poveri. Il Dio biblico è un Dio diverso. Chiediamolo a Giobbe, o a Maria, che ha visto un bambino diventare uomo, un crocifisso risorgere.

Ma le perle di questi capitoli non finiscono qui. Mentre invoca quella garanzia estrema, Giobbe sente ormai la morte molto prossima: «Ho il volto arrossato di pianto, e l’ombra mi vela le palpebre» (16,16). Dalla sua anima fiorisce una preghiera nuova, tra le più belle di tutta la Scrittura. Una frase, una frecciata di luce racchiusa in un solo versetto: «Il Rabbino che mi insegnava l’ebraico non riusciva per l’emozione a leggere questo versetto» (Guido Ceronetti, Il libro di Giobbe). Alcuni versi della Bibbia si possono capire solo non riuscendoli a pronunciare per il dolore: «Terra il mio sangue non ricoprire, il mio grido non abbia mai fine» (16,18). Nel momento in cui Giobbe sente certa la sconfitta e la morte, abbassa gli occhi, guarda la terra e la chiama per nome. Schiacciato e fracassato, impara a pregare la terra. Questa preghiera – che è l’opposto dei culti fuori stagione alla dea madre – è il canto del terrestre, dell’adam che gettato col muso sulla polvere riesce a parlare alla terra (adamah), a vederla e sentirla diversamente, come un’amica leale. E chiama sorelle le marmegge e fratelli i vermi che si nutriranno del suo corpo, abitanti, come lui, della stessa terra. Ci vogliono le stimmate per sentire e chiamare veramente sorelle la terra e la morte.

La terra ha ascoltato la preghiera di Giobbe. Non ha ricoperto il sangue di molti giusti, e continua a conservare la memoria del grido di Giobbe e dei suoi fratelli. Ogni persona, ogni comunità, ogni cultura ha i suoi luoghi che continuano il grido di Giobbe e degli innocenti. Le steli, i monumenti, la stanza del figlio, molta poesia e arte che custodiscono le grida dell’anima – anche se troppo sangue spirituale viene disperso, ricoperto e assorbito dalla terra, per mancanza di poeti e di artisti, o perché troppo segreto e grande per essere visto da qualcuno. Questi luoghi li conosciamo e li riconosciamo, e ringraziamo la terra e i suoi abitanti per non averli ricoperti, per aver consentito al canto-grido di Giobbe di non spegnersi nella gola del mondo. Alla terra va chiesto, va supplicato, di non ricoprire il sangue dei giusti, perché la vita vorrebbe e dovrebbe ricoprirlo. L’amore umano chiede alla terra di dimenticare, seppellendolo, il grande dolore – e Giobbe lo dissotterra per un amore più vero. La terra non assorbì il sangue di Abele, quando un fratello "alzò la mano" non per custodire, ma per uccidere, e l’odore di quel giusto giunse fino a Dio (Genesi, cap. 4). Giobbe, un altro giusto, chiede alla terra di non assorbire il suo sangue, perché vuole che il suo odore giunga fino a noi. Il suo grido vivo ci chiede di diventare garanti, responsabili e solidali con le tante vittime innocenti. Sapremo alzare la nostra mano per salvarle?l.bruni@lumsa.it

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