domenica 19 giugno 2016
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Pochi giorni dopo la California, anche il Canada si è dotato di una norma che legalizza l’eutanasia. La maggioranza liberale che venerdì sera ha votato la legge al Parlamento di Ottawa ha inserito, tra le condizioni, che al suicidio assistito si possa accedere solo se la morte di chi la chiede è «ragionevolmente prevedibile». Non c’è da rallegrarsi molto, perché sappiamo dall’esperienza olandese e belga come vanno queste cose: simili espressioni volutamente generiche sembrano fatte apposta perché le maglie della legge si allarghino, col tempo, e l’eutanasia si estenda anche a coloro che oggi non ne avrebbero diritto o non ne hanno fatto personalmente richiesta. Il punto vero della questione eutanasia e del suo trend espansivo nel mondo è che dietro le apparenze della libertà personale, e del conseguente diritto a decidere sul momento della propria morte, si nasconde il concetto che la vita non abbia valore. Questa idea sembra aver fatto breccia nella mente di molti nostri contemporanei, che quando si trovano di fronte a persone con gravi disabilità o prossime alla morte si chiedono 'ma che vita è?'.L’idea di una vita senza valore è gemella del concetto di efficienza, tipico delle nostre società. Papa Francesco nella Messa per il Giubileo dei malati e dei disabili, domenica scorsa, lo ha detto a chiare lettere: non è la perfezione fisica che dà valore alla persona. L’idea che chi è gravemente disabile o malato terminale possa essere autorizzato a scegliere tra la vita e la morte deve essere adeguatamente contrastata, altrimenti è facile immaginare che si allargherà presto la cerchia di persone candidate all’eutanasia, là dove (e quando) essa si rende legale.La nuova legge canadese ci offre però lo spunto per una riflessione più profonda, relativa a come si affronta la morte nella nostra società. La questione originaria e radicale è la morte stessa, cosa sia una buona morte e cosa una buona vita. I problemi etici non riguardano solo il momento della morte, ma tutto ciò che lo precede. Se la vita non acquista il senso di un tempo da vivere in tutte le sue fasi, mantenendo in ciascuna di esse un’autentica qualità umana, l’etica non riuscirà a frenare le spinte verso l’accanimento terapeutico né le soluzioni eutanasiche che, in mancanza di un senso del vivere la fase terminale della vita, finiscono con l’apparire come la via d’uscita più ragionevole per situazioni divenute intollerabili. In futuro si faranno richieste di eutanasia anche perché si è smarrito il senso della propria vita. La morte ha certamente il carattere di fine della vita (terrena) dell’uomo. È possibile che la morte sia anche un compimento? La domanda lascia intendere che ci possa essere un possibile compito per la libertà dell’uomo anche nell’andare verso la morte. Coloro che sono favorevoli all’eutanasia o all’accanimento terapeutico cercano di dominare la morte anticipandola o rimandandola. Quanti invocano il diritto al suicidio assistito leggono la morte come spazio per la libertà, ma comprendiamo facilmente che si tratta di una contraddizione, perché la morte resta sempre indisponibile al dominio dell’uomo: fuggire la morte anticipandola significa fuggire se stessi come soggetti umani.  Purtroppo la direzione imboccata in alcuni Paesi – e annunciata in altri – verso l’eutanasia legalizzata rischia di trovare facili consensi in una società che si organizza sempre più individualisticamente. I sani non vogliono portare il peso dei malati, la solitudine minaccia gravemente le ultime fasi della vita (anche se non solo queste), le risorse del welfare diminuiscono, le questioni di senso vengono trascurate. Questi elementi inducono le persone a trovare desiderabile un’uscita d’emergenza, più che come espressione di libertà, come accettazione rassegnata di un destino. Solo una società che attivamente riscopre il valore della persona, i legami comunitari e di solidarietà, potrà contrastare la china che porta all’accettazione dell’eutanasia.
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