martedì 31 dicembre 2013
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Due attentati, due stragi di civili inermi nel giro di ventiquattro ore e nella stessa città, sembrano spezzoni di cronaca dal tumultuoso e insanguinato Medio Oriente, cose che succedevano a Gerusalemme o Tel Aviv e continuano ad accadere a Baghdad o ad Aleppo. Che simili tragiche notizie siano oggi abbinate alla città sul Volga nota a tutti come ex Stalingrado, luogo simbolo dell’eroica resistenza e dell’orgoglio nazionale del popolo russo, fa uno strano effetto, come se storia e geografia fossero improvvisamente impazzite mischiandosi nel nuovo disordine mondiale.
A dire il vero, il terrorismo islamico è uno spettro che avvolge la Russia da una lunga stagione, cominciata nell’estate del 1999, con i condomini della periferia moscovita sventrati dalle bombe, segnata dal massacro al teatro Dubrovka di Mosca nel 2002 e dalla strage dei bambini nella scuola di Beslan nel 2004, proseguita con lo stillicidio di attentati a treni, mercati, metrò in varie zone del Paese, fino al clamoroso attacco all’interno del più grande aeroporto della capitale nel gennaio del 2011.
Quel che all’inizio si presentava come un fenomeno legato al separatismo ribelle della Cecenia si è saldato via via con l’estremismo islamico, fino a diventare una delle tante avanguardie del fondamentalismo in guerra con l’Occidente. Un’evoluzione che si è accentuata da quando la Cecenia ha subìto la forzata pacificazione imposta dal proconsole di Putin, il giovane e violento Kadyrov. Pressoché debellato nella piccola Repubblica che voleva la secessione da Mosca, il terrorismo ha ripreso vigore nelle zone confinanti, dilagando in tutta la regione del Caucaso.
Solo in quest’ultimo anno si sono contati più di 50 attentati, quasi tutti concentrati in Daghestan e in Kabardino-Balkaria, Repubbliche della Federazione russa a maggioranza musulmana. Ad agire non sono più formazioni di guerriglieri, ma cellule di 'votati al martirio' che obbediscono all’emiro del Caucaso, Doku Umarov, un feroce comandante che intende dar vita ad un Califfato nella Russia meridionale. In un suo recente proclama, Umarov ha lanciato la guerra santa contro le Olimpiadi invernali che si apriranno a febbraio a Soci, località balneare alle pendici del Caucaso, un evento che ha bollato come «una provocazione ordita da Putin, un oltraggio alla memoria degli antenati sepolti nelle nostre terre». E ha invocato «la solidarietà dei fratelli che lottano in Iraq, Afghanistan e Siria» dove i ceceni si sono uniti alle formazioni combattenti sotto le bandiere verdi dell’islam.
L’obiettivo del 'Benladen russo' è quello di rovinare la festa al leader del Cremlino che ha deciso di organizzare i Giochi in una delle aree più rischiose del Paese. Ma è difficile che i kamikaze islamisti riescano a infiltrarsi nelle maglie delle rigidissime misure di sicurezza già predisposte attorno a Soci. Molto più facile seminare il terrore in altri luoghi della sterminata Russia. Ad esempio Volgograd, situata a 700 chilometri da Soci, crocevia di grande importanza tra il Nord e il Sud del Paese, l’ex Stalingrado che per i russi significa vittoria e patriottismo.
Al di là delle Olimpiadi la sfida dell’emiro del Caucaso mira ad incrinare l’immagine vincente del leader del Cremlino, 'pacifista' in Medio Oriente ma invischiato in una logorante guerra in patria. Putin ha esibito recentemente il suo volto umano, ha vestito i panni del leader illuminato che ridà la libertà agli avversari finiti in prigione, in primis Khodorkovskij. Ma adesso l’uomo che comanda sotto lo stemma dell’aquila imperiale dovrà tirare fuori gli artigli. In questo anche i leader occidentali più critici non potranno non dirsi d’accordo con lui. Alla fine Putin potrebbe uscirne rafforzato. È l’esito della folle strategia del terrore: non scalfisce i potenti, riesce solo a uccidere gli innocenti.
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