La Cina fa tremare il mondo e la diplomazia è la risposta
giovedì 7 ottobre 2021

Potremmo chiamarla 'Sindrome Crimea', visto che l’ultimo a portarla fino alle estreme conseguenze è stato Vladimir Putin nel 2014, allestendo, fra piccole blandizie e molte palpabili minacce, un referendum sulla penisola strappandola alla sovranità ucraina, fino ad annetterla alla Federazione Russa. O per l’esattezza, a riannetterla, visto che la Crimea con la sua importante base navale di Sebastopoli sul Mar Nero era stata donata a Kiev nel 1954 da Nikita Kruscev. Anche Taiwan – estremo e tenace rifugio del Kuomintang dei nazionalisti cinesi di Chiang Kai Shek – è oggetto del contendere dal 1949: Pechino ne reclama la riunificazione in quanto 'provincia separatista', accrescendo a fasi alterne la pressione su Taipei.

Una pressione che in questi giorni ha raggiunto il culmine dopo i ripetuti sconfinamenti di cacciabombardieri cinesi nello spazio aereo taiwanese. Una tattica – anche qui – già sperimentata da Putin nel Mar Baltico, fatta di ripetute punzecchiature da parte della flotta e dell’aviazione russa nei cieli di Lituania, Lettonia, Estonia, tre repubbliche ex-sovietiche ora membri della Nato.

Con una sostanziale differenza: Putin teme (non sempre a torto), l’accerchiamento occidentale e l’aumento della pressione ai propri confini; Xi Jinping, che di problemi confinari non ne ha, ha viceversa mostrato repentinamente le famigerate 'due facce del Regno di Mezzo', affiancando alla politica di espansione commerciale per cui la Cina era nota il meno suadente aspetto autoritario, come si è già visto a Hong Kong, con gli uiguri, con i dissidenti, con i suoi stessi magnati caduti in disgrazia. «Chiunque tenti di opprimere la Cina – ha scandito Xi davanti alla folla di piazza Tienanmen riunita per celebrare i cento anni della fondazione del Partito comunista cinese – si scontrerà contro una Grande Muraglia di acciaio».

Messaggio indirizzato agli Stati Uniti d’America, grandi protettori di Taiwan, alla quale intima di non interferire negli «affari interni» (e Taiwan lo sarebbe) di Pechino. Ma c’è chi ha usato parole meno retoriche e felpate, come la portavoce del ministero degli Esteri: «La Cina – ha detto due giorni fa – adotterà tutte le misure necessarie per schiacciare qualsiasi tentativo di indipendenza di Taiwan», dichiarazione subito seguita da un eloquente incursione di 56 aerei da combattimento (tra cui 12 bombardieri nucleari) nei cieli della cosiddetta 'provincia ribelle'.

Non sfugge che la rinnovata pressione cinese su Taiwan è stretta conseguenza di quel patto di sicurezza trilaterale fra Stati Uniti, Regno Unito e Australia – l’Aukus – annunciato di recente e destinato ad accrescere (soprattutto grazie alla disponibilità di sottomarini a propulsione nucleare da assegnare a Canberra) la presenza militare occidentale nell’area pacifica. Un gioco a rimpiattino che affianca e surclassa la guerra commerciale fra Pechino e l’Occidente in atto da molti anni, sostituendola con un confronto diretto e globale che si sviluppa su una scacchiera infinitamente più complessa di quanto non lo fosse la contrapposizione fra l’Occidente e l’Urss che abbiamo chiamato «guerra fredda». In un mondo multipolare, globalizzato e interdipendente in quanto si muove in un sistema economico comune, Cina e America hanno scarsissima convenienza – non soltanto per la reciproca deterrenza nucleare – a ricorrere a un vero confronto militare.

E ciò semplifica e insieme complica i problemi. Nessuna nazione occidentale è intervenuta per sottrarre la Crimea agli appetiti di Putin. Difficilmente Washington e i suoi alleati potranno intervenire per salvare Taiwan dal ritorno forzato alla «casa madre». Che la partita geopolitica più importante per gli Stati Uniti si giochi proprio lì, nel vasto quadrante indo-pacifico, è altrettanto fuori di dubbio. In tal senso va letto l’assai poco glorioso ritiro americano dall’Afghanistan: una campagna ventennale perduta e inefficace, che sottraeva risorse e uomini a ben altre urgenze.

«Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà». Pare l’abbia detto Napoleone nel 1816, e un secolo più tardi Lenin fece sua questa profezia. Oggi ci siamo pienamente immersi; avendo di fronte un gigante economico, politico, militare con il quale è indispensabile fare i conti. Con la diplomazia e i comuni interessi, però, più che con le cannoniere.

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