L'investimento che manca all'Italia
mercoledì 25 luglio 2018

È meglio avere un figlio che frequenta l’asilo nido oppure un nonno in pensione anticipata che si occupa del nipote? Per tentare di rispondere a questa domanda in modo esauriente probabilmente si dovrebbe organizzare un convegno e invitare esperti di molte discipline. Questo perché il quesito – che ovviamente parte dal presupposto che entrambi i genitori vogliano avere un lavoro retribuito – deve tenere conto di un ventaglio ampio di fattori: economici, sociali, culturali, affettivi, e via dicendo. Se però ci mettiamo ad analizzare le politiche messe in campo dall’Italia negli ultimi anni per migliorare il proprio "capitale umano" possiamo arrivare già a una risposta parziale e ammettere che sono molti gli aspetti critici che dovremmo affrontare.

Gli studi più recenti dimostrano infatti che in fatto di sviluppo cognitivo, ma anche di capacità relazionali e di concentrazione, gli investimenti nei primissimi anni di vita di un bambino, cioè dalla nascita fino ai tre anni di vita, hanno il rendimento più alto e costano molto meno rispetto a interventi in altre fasce di età. Il premio Nobel per l’Economia nel 2000, James Heckman, lo ha dimostrato chiaramente, in particolare riferendosi all’infanzia più svantaggiata, quella cioè che vive in un contesto familiare o territoriale penalizzante. In sostanza, se un Paese ha intenzione di elevare il capitale umano della sua popolazione e offrire migliori opportunità ai cittadini del futuro dovrebbe destinare una buona parte di risorse proprio nei primi anni di vita dei bambini.

Fino a qualche anno fa l’Italia spendeva per i piccoli sotto i 3 anni metà delle risorse destinate alle altre fasce di età, e un quarto in meno rispetto alla media dei Paesi Ocse. Forse il collegamento è un po’ ardito, ma quando parliamo di capitale umano dovremmo tenere presente che il nostro Paese ha una percentuale di laureati che è circa la metà della media Ocse e molto più bassa anche della media Ue, e detiene il record europeo di giovani sotto i 30 anni che non studiano e non lavorano, il 24%, contro il 14% medio dell'Unione.

Negli ultimi dieci anni, dallo scoppio della Grande crisi, la situazione si è fatta più complicata in seguito all’aumento della povertà relativa e assoluta e con il peggioramento delle condizioni economiche in particolare delle famiglie con figli piccoli a carico. La crisi ha come ribaltato i rapporti di forza tra le famiglie con minori e quelle con pensionati: gli ultimi dati di Istat e Banca d’Italia indicano proprio che in fatto di reddito medio e di ricchezza la situazione è migliorata notevolmente per i maggiori di 65 anni e peggiorata per chi ne ha meno di 35. Non tutti gli over 65 sono "ricchi", ovvio. Ma lo squilibrio c’è. Le famiglie con figli, insomma, hanno molte meno risorse da investire nell’educazione dei bambini rispetto a un tempo non lontano e durato troppo poco. E questo, in particolare nelle aree svantaggiate, potrà rappresentare, e già rappresenta oggi, un grosso deficit.

Nell’educazione, come in altri ambiti, i soldi ovviamente non sempre fanno la differenza. Ma su larga scala le minori risorse si associano quasi sempre a maggiori problemi. Lo si può vedere ad esempio negli investimenti pubblici destinati agli asili nido. Molti studi sono riusciti a dimostrare che bambini che hanno avuto l’opportunità di frequentare un nido hanno poi ottenuto punteggi scolastici migliori in diversi ambiti, ma soprattutto che in genere un’assistenza all’infanzia di qualità offre stimoli positivi che permettono di raccogliere molti frutti più avanti.

Il nido insomma non è solo un sostegno alle coppie che lavorano, un "parcheggio" che consente di armonizzare i tempi della famiglia con quelli del lavoro: è una forma di "investimento" sui bambini che può fornire delle carte in più a chi ha meno mezzi. È anche per questo che nel 2010 l’Europa si è data come obiettivo far raggiungere agli Stati membri un’assistenza all’infanzia per almeno il 90% dei bambini tra i 3 e i 6 anni e il 33% per quelli da 0 a 3. In questo lasso di tempo l’Italia ha fatto passi notevoli: ha superato il primo obiettivo, ma è molto lontana dal raggiungere il secondo.

Come mostra il rapporto dell’Ufficio valutazione d’impatto (Uvi) del Senato gli utenti dei nidi pubblici hanno raggiunto il 12-14% in media negli ultimi anni, ma se nelle aree del Nord si supera anche il 25%, ecco che regioni come Puglia, Calabria, Sicilia e Campania non raggiungono nemmeno l’obiettivo minimo di una copertura del 6%. Questa forte disparità riflette anche le differenze di sviluppo territoriale e al contempo può esserne una causa.

Tra i tanti investimenti che un Paese può fare per migliorare le condizioni di vita dei suoi cittadini negli anni a venire quello nell’educazione dei più piccoli è certamente strategico. Anche il Contratto di Governo sottoscritto da Lega e M5s lo riconosce. Il sostegno può esprimersi in varie forme, attraverso strutture statali, con il coinvolgimento del Terzo settore o del mondo delle imprese, promuovendo servizi in cui sono protagoniste le stesse famiglie.

Secondo il dossier del Senato, per raggiungere la copertura dei nidi prevista dalla "Buona Scuola" potrebbero servire da 1 a 2,6 miliardi l’anno. Solo a titolo di paragone, e non per fare contrapposizioni, la spesa minima prevista per abbassare un po’ l’età pensionabile oggi è stimata in almeno 5 miliardi l’anno. Dunque, per provare a rispondere alla domanda iniziale: forse l’ideale è avere un bambino che frequenta il nido e un nonno giovane in pensione che lo va a prendere e aiuta i genitori nella sua crescita. Ma dovendo scegliere?

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