L'altra faccia del referendum
sabato 26 novembre 2016

Non è vero che la politica non appassiona più, che è destinata sempre e solo a dividere e a diventare argomento da salotto. La politica – speriamo di poterla scrivere prima o poi con la "p" maiuscola – intesa come arte di governo, è materia ancora capace di scaldare gli animi. Perché non lascia indifferenti, perché interroga e mobilita. Non tutti, lo vediamo e lo sappiamo, ma comunque tanti.

Il primo, piccolo, risultato ottenuto dalla lunghissima campagna elettorale che ci sta conducendo al referendum di domenica prossima è stato proprio la riscoperta di un desiderio "sano" di politica. Un bisogno primordiale, che in molti casi non si è accontentato del "sentito dire", ma ha convinto parecchi di noi a muoversi, a uscire la sera, a frequentare incontri a tema. Per ascoltare, per documentarsi, per capire e infine per scegliere. Prima ancora che il "sì" o il "no" alla riforma costituzionale, sarà la voglia di partecipare tra sette giorni alla consultazione il primo banco di prova in grado di valutare la salute della nostra democrazia.

L’impressione, da quel che si è visto negli ultimi mesi (da quando cioè il confronto tra gli attori in campo si è fatto più serrato) è che il bisogno di "esserci", di esprimersi in prima persona, di "contare" stavolta non sia mancato. Più il Palazzo in quasi tutte le sue espressioni, col passar delle settimane, si chiudeva in un lessico veemente fatto di rivendicazioni e di semplificazioni (anche da bar, purtroppo) nella speranza di ottenere per questa via il fatidico "voto in più" (da una parte o dall’altra), proporzionalmente, è sembrato crescere nel nostro Paese lo schieramento di chi, al netto delle appartenenze politiche, si è chiesto, senza ambiguità e senza isterismi, perché la posta in gioco fosse così alta e il Sì e il No avessero un senso oltre i deragliamenti provocati dalla retorica della spallata o del sostegno al Governo in carica. «Concretamente – si diceva nei dibattiti – cosa cambierà per me il 5 dicembre?». Saggezza popolare e domande dell’uomo della strada sono quindi confluite in migliaia di serate, organizzate lungo tutta la Penisola da istituzioni, associazioni, circoli culturali per illustrare i pro e i contro dei cambiamenti proposti.

A brillare, in particolare, è stato l’impegno del laicato cattolico che, instancabilmente, sul territorio si è fatto promotore e portavoce del bisogno di informazione, di comprensione e di confronto. Come ha detto su queste pagine il presidente nazionale dell’Azione Cattolica, Matteo Truffelli, illustrando il lavoro fatto in convegni e incontri a tutti i livelli, «abbiamo incontrato un Paese profondamente desideroso di capire e partecipare».

Si è trattato quasi di una piccola opera di "pedagogia costituzionale" che ha messo a tema, insieme alla riscoperta dell’importanza della nostra Carta, anche la necessità di tornare a parlare di politica come della «forma più alta di carità», per citare ancora una volta le famose, e mai abbastanza comprese, parole di papa Paolo VI. È inutile dire che di tale risveglio hanno enorme bisogno non solo gli italiani credenti, ma tutte le nostre comunità civili, a volte incapaci di cercare risposte costruttive di fronte alle sfide del tempo che viviamo.

In queste occasioni di vasto e rinnovato incontro a 360 gradi e "dal basso", tra tante realtà ecclesiali e tra tanti altri pezzi di società civile, sono tornate d’attualità espressioni che avevamo dimenticato, dalla forza del «voto consapevole» al «bisogno di discernimento» fino alla necessità del «bene comune» da costruire insieme.

È bastato e basterà tutto questo per salvare il senso del referendum costituzionale del 4 dicembre? Forse. E forse aiuterà a capire il giorno dopo il suo risultato. Indurrà finalmente a curare i "tic" una comunicazione politica che non si preoccupa di ciò che accade tra la gente, si nutre sempre di più non solo del pensiero (forte o debole...) dei leader di turno e degli slogan a buon mercato che producono e cambia – in peggio – alla velocità supersonica dei social network? C’è da temere di no. Ma è certamente un bel segnale aver avviato una stagione di semina nelle sale parrocchiali che si sono messe a disposizione di un aperto confronto di merito, negli oratori e nei centri giovanili delle diocesi.

L’invito dei vescovi italiani a partecipare, a capire e a decidere senza paraocchi e pregiudizi non è rimasto inascoltato. Alla vigilia di un voto che si prevede sanamente incerto e al netto di scenari post-elettorali troppo descritti per essere già scritti, sembra intravedersi finalmente un ricominciamento di partecipazione reale. C’è un pezzo di Paese consapevole e "nuovo" in quest’Italia che cambia e deve ritrovare se stessa. E non ha nessuna voglia di farsi strumentalizzare.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI