L’abbecedario della sussidiarietà
sabato 11 marzo 2023

Dio è il Dio del silenzio, perché solo il silenzio di Dio è la condizione del rischio e della libertà
Andrè Neher, L’esilio della parola

Alcuni errori gravi nel rapporto tra le imprese e i loro consulenti hanno a che fare con la sussidiarietà, una parola assente nei corsi di formazione per manager delle business school, in genere lontana anche dalla teoria e dalla prassi delle varie forme della consulenza. Sussidiarietà è parola prima di ogni buona comunità e società. È essenzialmente un’indicazione sull’ordine e sulle priorità di azione quando gli interventi necessari per gestire un problema sono più di uno e gli attori si trovano a distanze diverse dal problema da risolvere. La raccomandazione del principio di sussidiarietà è in realtà semplice: il primo che deve agire ed essere ascoltato è quello più vicino al problema, e tutti gli altri attori devono intervenire solo dopo per aiutare (in “sussidio”) chi è più prossimo alla situazione da gestire. Le applicazioni più note del principio di sussidiarietà sono quelle politiche (verticali e orizzontali), talmente note che si finisce per dimenticare che la sussidiarietà ha una portata molto più vasta.

L’origine della sussidiarietà si trova nel pensiero di Aristotele e poi di san Tommaso d’Aquino. Ma la sussidiarietà la troviamo già nella Bibbia, dove il primo ad applicarla è Dio stesso nei suoi rapporti con gli uomini e le donne. Perché non si sostituisce alla loro responsabilità ma li “aiuta” (sussidia) a realizzare la loro vocazione, e poi si fa da parte, tace, si ritrae (tzimtzum), si ritira, esce di scena - è anche questo il significato del “settimo giorno” della creazione e dello shabbat (Genesi 2,2). È il Dio della “seconda battuta”, dell’“ultima istanza”, che interviene solo dopo che abbiamo fatto tutta la nostra parte per risolvere i nostri problemi. Tanto che in alcuni libri biblici – da Ester al Cantico, da Rut a Qoelet – l’azione diretta di Dio è quasi assente, per far spazio a quelle degli uomini e ancor più delle donne. Nella sussidiarietà, infatti, c’è qualcosa di femminile. Il Dio della Bibbia ci accompagna senza prendere il nostro posto, perché, diversamente dagli idoli, non abusa del suo potere, lo usa in modo sussidiario.

Nella Bibbia, poi, troviamo anche episodi dove la sussidiarietà è esplicita. Uno riguarda la costruzione del tempio di Salomone. A un certo punto, la responsabilità dell’opera passa dai sacerdoti ai lavoratori, «ai muratori, agli scalpellini», e «il denaro veniva consegnato nelle mani degli esecutori dei lavori» (2 Re 12,12-13). La gestione del processo produttivo viene così tolta a chi era più distante e con meno competenze (i sacerdoti) e data ai lavoratori, coloro più vicini all’opera – a ricordarci anche che senza sussidiarietà non abbiamo mai laicità ma solo clericalismo. La sussidiarietà la ritroviamo, poi, anche nei Vangeli, in particolare nel grande racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci: «Gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla…”. Ma egli rispose loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Gli dissero: “Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane?”. Ma egli disse loro: “Quanti pani avete? Andate a vedere”. Si informarono e dissero: “Cinque pani e due pesci”» (Mc 6,35 ss).

I discepoli si rivolgono a Gesù per risolvere il problema, ma lui risponde con una sintesi perfetta della sussidiarietà: date voi stessi loro da mangiare. La prima soluzione che ai discepoli viene in mente è il mercato (i denari), ma Gesù li invita a “guardare bene” prima tra di loro: quanti pani avete? Ecco arrivare i cinque pani e i due pesci, che, nella versione di Giovanni, sono offerti da un ragazzo, un “ultimo”, ancora in linea con la sussidiarietà della Bibbia che per risolvere un problema parte in genere dagli ultimi (Davide, Giacobbe, Maria…). Gesù interviene dunque sussidiariamente. Quel “ma” ripetuto nel brano del Vangelo dice molto della sussidiarietà: è un ordine che va creato “avversando” l’azione spontanea delle cose, perché la prima reazione non è sussidiaria (si va direttamente al più potente).

Questa sussidiarietà biblica ed evangelica contiene una vera e propria grammatica e un abbecedario. La sua prima radice è una dimensione cognitiva, riguarda la conoscenza. Chi è dentro un problema, o chi gli è più vicino, ha il diritto-dovere alla prima mossa perché ha una conoscenza diversa e in un certo senso superiore di quella di chi è “fuori” dal problema o comunque più distante (la distanza prende varie forme). Non è l’unica conoscenza in gioco, ma deve venire prima, se prendiamo sul serio le persone. Chi è dentro il proprio problema possiede un accesso alla realtà diverso e necessario. Perché la realtà ha una sua forza di verità, espressa da una frase molto amata da papa Francesco: «La realtà è superiore all’idea» (Evangelii gaudium, 233), cioè all’idea che si fa della realtà chi è lontano da essa. Nell’educazione il principio di sussidiarietà ci dice che un intervento educativo deve partire da ciò che il ragazzo (ogni persona) è e sa già: l’azione che arriva da fuori deve essere sussidiaria alla realtà pre-esistente, perché nessuna persona è così ignorante da non sapere già qualcosa, nessuno è così giovane da non essere già qualcosa prima di essere formato. Una bella sintesi di ciò è la nota frase di Robert Baden Powell: «Ask the boy», chiedi al ragazzo: parti da lui-lei se vuoi risolvere un suo problema.

Un altro ambito è la povertà. In una situazione di povertà-miseria dobbiamo partire da ciò che quella persona o comunità sa già fare, dalle ricchezze che già possiede, e leggere il nostro intervento come sussidiario a quanto l’altro già è, ha e sa. E qui si capisce quale sia la dimensione etica alla radice della sussidiarietà: la stima per ciò che sei già e non solo per quanto non sei ancora, una stima che è il primo passo della soluzione, perché «solo tu puoi farcela, ma non puoi farcela da solo», ho sentito ripetere al vescovo Giancarlo Bregantini. Così fa con noi il Dio biblico, che è sussidiario perché ci stima per ciò che siamo già, e poi ci chiama a diventare ciò che non siamo ancora: dal nostro già ci chiama e ci dice “alzati” o “vieni fuori”. Infine, l’episodio dei pani e dei pesci ci dice qualcosa sul rapporto sussidiario tra il mercato (i duecento denari) e il dono: se in una comunità puoi usare il dono per risolvere una situazione non usare il mercato; oppure, nella versione positiva: il mercato è buono se aiuta il dono, è invece cattivo quando lo sostituisce.

E ora veniamo alle imprese e suoi consulenti, con un ragionamento che si può estendere anche a coloro che svolgono un ruolo di accompagnamento. Cosa implica prendere sul serio qui la sussidiarietà? Cosa deve fare un consulente, cioè qualcuno/a che entra dentro le relazioni dell’impresa e quindi nella gestione delle emozioni delle persone? La prima implicazione del principio di sussidiarietà riguarda ciò che accade prima che si chiami il consulente: date voi stessi loro da mangiare. E quindi la domanda: abbiamo prima individuato dove si trovano i nostri pochi pani e pesci? Perché se questi non si trovano (e ci sono sempre) manca la materia (la res) per qualsiasi intervento esterno. Ma questo passaggio previo non si fa quasi mai, o ci si ferma ai “duecento denari” senza arrivare al “ragazzo”; e così, quando giunge il consulente esterno, il “miracolo” non avviene, per mancanza di sussidiarietà non nel consulente ma di chi lo chiama.

Dopo questa fase, la logica della sussidiarietà suggerisce al consulente di prendere molto sul serio la realtà che si vorrebbe aiutare, perché è lì dentro dove si trova il principio della soluzione. Quindi deve dedicare molto tempo alla dimensione narrativa essenziale in ogni processo di discernimento (la consulenza dovrebbe essere essenzialmente un aiuto al discernimento). Le persone devono allora essere messe nella condizione di poter raccontare la loro vita, i loro problemi, i loro dubbi, i loro sogni. E quindi il consulente deve saper perdere tempo, molto tempo, e, ancor prima, deve formarsi all’ascolto, forse l’arte più difficile da apprendere e da insegnare in questo tempo dominato da troppi rumori di fondo. L’ascolto del cuore delle persone deve essere talmente profondo da trasformare chi parla e chi ascolta. Ecco perché il giovane Salomone che prima di diventare re chiede a Dio un solo dono, «un cuore che sa ascoltare» (1 Re 3,9), è il “protettore” di ogni consulente.

Ma decisivo è l’ascolto dei sogni. Qui c’è bisogno di una rara ed essenziale abilità: saperli prima riconoscere come sogni e poi interpretarli. Infatti, come ci insegna ancora la Bibbia (che dei sogni è il grande codice), i sogni hanno bisogno di un interprete che sia a sua volta sognatore: Giuseppe (Gn 41) e Daniele (Dn 2), i due grandi sognatori, riescono a interpretare i sogni degli altri perché anche loro sapevano sognare. E così gli errori più tipici della consulenza, anche di quella che arriva fino all’ascolto dei sogni degli altri, sono di due tipi: (a) quelli di chi non riconosce il “genere letterario” dei sogni e li analizza con i soliti strumenti dei fatti della veglia; (b) quelli di chi li riconosce in quanto sogni ma, non essendo a sua volta sognatore, sbaglia l’interpretazione. Cosa significa per un consulente essere un sognatore? Deve conoscere il linguaggio dei desideri, degli ideali, delle passioni, del non-razionale e del non-economico, di cui è piena anche la vita economica. Li deve conoscere o perché qualche volta li ha sperimentati nella propria vita, o perché, in mancanza di questo, li ha studiati molto – anche questa è una ragione per cui non esistono consulenti globali per tutte le imprese e tutti i problemi, perché nessuno conosce tutti i sogni. Senza questa competenza ed esperienza di sogni si fermano all’involucro dei problemi, vedono solo l’apparenza e la scatola. Un consulente diventa poi eccellente quando riesce a tirarci fuori i sogni che non abbiamo ancora raccontato a nessuno.

Si comprende allora che l’incompetenza sui sogni, che è sempre grave, diventa decisiva quando la consulenza entra nelle organizzazioni a movente ideale (OMI) e nelle comunità spirituali. Qui spesso i “miracoli” tanto attesi non avvengono perché la consulenza si ferma spesso a un piano troppo basso per scorgere il cielo, che è il luogo dei sogni più grandi. E in queste realtà (su cui torneremo), non riuscire a capire i sogni del carisma significa non capire il cuore di tutti i problemi. A questo punto, dopo tutte queste prime delicate fasi, il/la consulente può, senza fretta, offrire il suo necessario sussidio, ma … neanche un solo secondo prima. La consulenza è importante e necessaria se e quando arriva nella giusta sequenza delle azioni. E poi, alla fine del processo, deve saper andar via, uscire di scena per non trasformare l’aiuto in vincolo e dipendenza – ma di questo parleremo domenica prossima.

l.bruni@lumsa.it


© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI