giovedì 3 novembre 2011
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«La chiesa madre – scrive l’architetto Mario Botta, che ha progettato e realizzato la cattedrale di Evry – è la manifestazione dell’eterno che entra nell’orizzonte dell’operare umano». È un canto di pietra eretto al mistero del Cristo vivente nel cuore della città e della nostra storia, una storia che ha a che fare con l’eterno. Per questa ragione non esiste Duomo senza la sua Fabbriceria, che costruisce e poi conserva, amplia e restaura. Nel progetto, che scavalca la normale concezione del tempo, c’è l’opera finita e insieme un’opera che necessariamente continua, perché l’edificio possa vivere. Alla base è la consapevolezza di un lavoro che non si calcola negli anni, ma nei secoli.Un progetto, quello del Duomo, che si incarna nel ventre della terra, pronta ad accogliere le fondamenta, per poi stagliarsi nel cielo ridisegnando il paesaggio e la città, espressione del dialogo tra uomo e Dio. Le cattedrali hanno conosciuto tra l’XI e il XIII secolo il periodo del grande splendore, sono state il centro vitale delle città e della rinascita del tessuto urbano in Europa. Le grandi chiese venivano erette da mastri animati da genio e passione insieme a una miriade di muratori, falegnami, scalpellini e con il contributo di artisti più o meno grandi, ma soprattutto sostenuti dall’intero popolo di Dio con offerte o prestazioni di lavoro. Era viva la coscienza che quell’edificio era il segno della presenza di Dio proprio in mezzo a loro, chiesa del vescovo e delle genti che abitavano quella città e quelle terre, luogo liturgico, ma anche aperto per le assemblee cittadine.Così nel Medioevo veniva ridisegnato lo spazio, e quello spazio diventava sacro. Sovvertendo la tradizione greca che separava il tempio dalla <+corsivo>polis<+tondo>, lo spazio degli uomini da quello destinato al culto degli dei, si affermava la centralità della chiesa, del tempio cristiano, proprio nello spazio urbano. Ancora oggi quando ci avviciniamo a Chartres si ha l’impressione che tutta la città sia addossata alla sua cattedrale, che si staglia enorme e magnifica sull’abitato, quasi a sostenerlo. Un inno di pietra in cui tutto, dai marmi ai colori delle vetrate e degli affreschi doveva essere bellezza, una bellezza che non è puro fatto estetico, ma che vuole essere espressione dell’Incarnazione e perciò abbracciare sia il dolore che la gloria, sia la croce che la resurrezione.Una bellezza che palpita anche nel cantiere nella Basilica della Sagrada Familia, dedicata da Benedetto XVI il 7 novembre 2010, già mèta di pellegrinaggio per due milioni e mezzo di persone ogni anno. «Non vorrei terminare io i lavori, perché non sarebbe conveniente – diceva Gaudí –. Un’opera del genere deve essere figlia di tempi lunghi: più sono lunghi, meglio è. Bisogna sempre conservare lo spirito del monumento, ma la sua vita deve dipendere dalle generazioni che se la tramandano e con le quali la chiesa vive e si incarna». L’architetto catalano iniziò il cantiere nel 1882 e da allora la sua costruzione prosegue solo grazie al contributo dei fedeli. Non c’è una data certa per la «fine dei lavori» ma si prevede il 2026. C’è un brano di Marguerite Yourcenar nelle Memorie di Adriano che ci aiuta a capire il segreto e la vitalità delle Fabbricerie, la cui associazione italiana si riunisce oggi a Pisa: «Costruire significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre. (…) Ricostruire significa collaborare con il tempo nel suo aspetto di passato, coglierne lo spirito o modificarlo, protenderlo quasi verso un più lungo avvenire. Significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti».
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