La ferita della maternità surrogata
giovedì 22 giugno 2017

Non pochi, anche se non tutti, tra gli avversari dell’omogenitorialità (soprattutto quella maschile, che per realizzarsi deve di necessità ricorrere alla maternità surrogata) insistono nel mettere in guardia contro il pericolo cui andrebbero incontro i bambini, figli di due padri e di nessuna madre, nel loro processo di sviluppo psicologico e sociale. È indubbio che tale rischio sia reale e rilevante e che la cultura contemporanea, che legittima o almeno banalizza la tecnica della maternità surrogata, si mostra incredibilmente poco consapevole del fatto che attraverso di essa si stanno usando i minori per una sperimentazione azzardata, assolutamente inedita e pericolosissima. Una deriva che sui mass media trova frequente amplificazione anche attraverso le imprudenti parole di qualche uomo o donna di potere, come nel caso delle recenti dichiarazioni della senatrice Monica Cirinnà, che arriva a cataloga il fenomeno all’interno della mera «autodeterminazione del corpo» femminile.

È altrettanto indubbio, però, che da anni si moltiplicano indagini psicologiche e sociologiche volte a rassicurare in materia un’opinione pubblica sempre più frastornata (indagini di cui ci ha dato notizia, con ammirevole onestà intellettuale "Avvenire", con un articolo di Luciano Moia nel supplemento mensile "Noi Famiglia&Vita" del 26 febbraio 2017). È molto probabile che gran parte di queste indagini siano scientificamente inattendibili e ideologicamente condizionate, come ci spiega lo stesso Moia, ma ciò non di meno esistono e sono talmente numerose e corpose da aver condizionato la stessa Corte Suprema Usa nella celebre sentenza che aprì l’Unione alle nozze gay.

Peraltro non c’è davvero bisogno dei sociologi e degli psicologi per rilevare come l’incredibile forza vitale dei bambini consenta loro di superare, pur con ferite aperte e cicatrici profonde, tante difficoltà la vita imponga loro di affrontare: la letteratura universale, le fiabe, i miti ci hanno in mille modi diversi "informati" su come nessuna avversità sia assolutamente invincibile per un bambino, nemmeno quella di essere orfano, abbandonato, comprato, venduto, segnato da infermità o da altre vicende dolorose e tristi.

Quindi, tutto bene per l’omogenitorialità? Dobbiamo rinunciare a contestare alcunché alla maternità surrogata? Al contrario. Questa pratica solleva un problema del tutto insolubile, non però di carattere socio-psicologico, ma di carattere antropologico. Il modo più corretto per combattere la maternità surrogata non è quello di ipotizzare sventure e nevrosi per i bambini procreati attraverso un affitto di utero: ci sarà sempre uno studioso (o un presunto tale) che contesterà questa affermazione, negandone l’ineluttabilità.

Bisogna piuttosto concentrare l’attenzione e puntare il dito, come su queste pagine si è cominciato a fare sin dall’estate del 2013 parlando di nuova «colonizzazione» dell’umanità femminile, sull’irrimediabile incrinatura dell’identità della donna, che si realizza attraverso la surrogazione di maternità. La madre, che dopo nove mesi di gestazione cede il bambino ai committenti, è indotta a ritenere banale un’esperienza umana incancellabile. Reciprocamente, coloro che attraverso un contratto assumono il controllo della vita di una gestante, che dopo il parto consegnerà loro il neonato, sono inevitabilmente indotti a considerare il corpo delle donne come disponibile. Perché questo è il punto nodale della questione: l’interesse delle donne a non essere espropriate della loro corporeità, persino prima ancora dell’interesse del bambino ad avere un’univoca figura materna.

I fautori della maternità surrogata (supponiamoli in buona fede) che insistono nel dire che attraverso accorte clausole contrattuali si può superare questa difficoltà (per esempio riconoscendo alla madre surrogata una qualche forma di «diritto di visita» nei confronti del figlio partorito e subito ceduto ai committenti, o elargendo un «rimborso spese» per tentare così di far coesistere eventuale «motivazione altruistica e passaggio di denaro», come ha ancora affermato Cirinnà spendendosi per la legalizzazione della pratica) mostrano una cosa soltanto: di non capire che il vincolo materno non trova le sue radici nei sentimenti, ma in una realtà biologica, fattuale, innegabile e incancellabile: è attraverso la gestazione, infatti, e non attraverso i sentimenti che madre e figlio si co-appartengono. La scienza medica, Carlo Cardia lo ha sottolineato pochi giorni fa su questa stessa pagina, ce lo sta confermando con sempre maggiore eloquenza di fatti acclarati e finalmente compresi. Ne segue che nella maternità surrogata, la posta in gioco non è primariamente affettiva, bensì identitaria.

Ecco perché la valutazione di questa prassi non può essere elaborata ragionando in termini puramente emotivi (come vanno facendo alcune etiche 'sospirose', oggi di moda), né in termini freddamente economici, come quelli che pongono in rapporto costi e benefici (per dimostrare che la madre surrogata da questa pratica 'guadagna' un benessere prezioso per il futuro suo e dei suoi familiari, così come ci 'guadagna' un bambino a essere allevato da committenti che l’hanno desiderato fino allo spasimo). È ben possibile che chi nasca da maternità surrogata sia amatissimo dai suoi genitori sociali e goda per contratto e spesso anche per dettato della legge di garanzie di cui spesso non beneficiano i figli di maternità naturali.

Ma la sottrazione di identità materna cui viene irrimediabilmente condannata la gestante nella maternità surrogata non è compensabile in alcun modo: il denaro che le viene offerto e che essa accetta (non sempre dopo accorte trattative) arricchirà o renderà un po’ meno povera la sua vita quotidiana, ma la renderà nello stesso tempo terribilmente più misera sul piano della sua umanità. Quella del denaro, infatti, è una tentazione potente, terribilmente potente e distruttiva. È una tentazione diabolica, come ci insegnano da sempre le grandi religioni e i più profondi movimenti spirituali.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI