giovedì 2 aprile 2009
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«Venerdì alle ore 9 le Brigate rosse hanno arrestato di fronte allo stabilimento della Sit­Siemens il dirigente Idalgo Macchiarini. Dopo averlo processato, lo abbiamo consigliato a lasciare al più presto la fabbrica e quindi rilasciato in libertà provvisoria...». Iniziava così, il 3 marzo 1972, il comunicato di rivendicazione del primo sequestro di un dirigente industriale ad opera delle nascenti Br. Fu l’inizio di una tragica escalation che dal rapimento-lampo passò alla gambizzazione fino all’assassinio dei responsabili del personale prima, di magistrati, politici e giornalisti poi. A leggere le notizie dalla Francia sui sequestri di dirigenti industriali, corre qualche brivido nella schiena di chi in Italia conserva memoria di questo recente passato. È vero, i contesti sono molto differenti e la storia non si ripete mai uguale. Tuttavia, come in quegli anni ’70, oggi la crisi economica, coi suoi pesanti costi sociali, potrebbe costituire – Dio non voglia – per qualcuno il terreno ideale, l’humus per far rispuntare la malapianta della lotta armata. Mai del tutto seccatasi nel nostro Paese, come dimostrano sia gli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi, sia le ancora più recenti minacce al giuslavorista Pietro Ichino. E se finora proprio questa categoria di studiosi era stata messa pesantemente nel mirino per le riforme dei rapporti di lavoro, l’epicentro dello scontro potrebbe invece tornare ad essere la fabbrica, i luoghi di lavoro, per quanto oggi maggiormente dispersi e frastagliati, nei quali si consuma il dramma dei licenziamenti, a volte la divisione fra i sindacati. Pur seppellito sotto strati di consumismo di massa, infatti, il mito della rivoluzione di classe in realtà è a suo modo sopravvissuto.E in questa fase di passaggio da un neo-liberismo spinto, che ha mostrato tutti i propri limiti, a un 'nuovo capitalismo' che è urgente delineare nei suoi tratti etici, rischia di trovare nuova linfa, una rinnovata pubblicistica e 'gesti clamorosi' per attirare l’attenzione. Magari contro quei dirigenti ai quali spetta l’onere di chiudere impianti o che hanno beneficiato di ricchi bonus. Oppure ancora dei politici ritenuti loro 'complici'. Non è il caso di suonare allarmi. Di prestare maggiore attenzione, però, sì. Soprattutto alle parole, agli aggettivi con i quali si argomentano le obiezioni politiche. Ed evitare, ancor più, le personalizzazioni che – anche incolpevolmente – hanno finito purtroppo in passato per delineare veri e propri bersagli, poi puntualmente messi nel mirino delle azioni violente. Colpivano in questo senso, ieri, le parole di Oliverio Diliberto che oltre a «non condannare» le ragioni dei lavoratori francesi, spiegava di «odiare Silvio Berlusconi» (attenzione: non un 'legittimo' astio verso la sua politica, ma per la sua persona). O l’affermazione di qualche giorno fa di Antonio Di Pietro, secondo il quale «il ministro Sacconi ha scelto di stare dalla parte degli assassini dei lavoratori», dando agli imprenditori «una vera e propria licenza di uccidere». Tra qualche giorno la Cgil terrà una grande manifestazione al Circo massimo a Roma. L’ultima volta che lo fece, il 22 marzo 2002, a Bologna erano in corso contemporaneamente proprio i funerali di Marco Biagi, ucciso dalle Brigate rosse. Non abbiamo dubbi che quella sindacale sarà una protesta democratica, civile, com’è nella tradizione del sindacato italiano. Pressante e appassionata quanto la Cgil legittimamente riterrà opportuno.Ma, è auspicabile, più densa di contenuti e proposte che di invettive e divisioni artificiali, che non lasci troppo spazio agli estremismi di certe formazioni politiche in cerca di visibilità per le elezioni europee. Perché l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno, oggi, è alimentare l’odio tra imprenditori e lavoratori, fra manager e operai, tra un sindacato e l’altro, tra maggioranza e opposizione. Se dalla crisi vogliamo uscire insieme e senza vittime.
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