sabato 2 aprile 2011
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Gentile direttore ,le scrivo dopo lunghi pensamenti. L’argomento è: i nostri soldati morti e feriti in missioni di "pace". Un giovane del mio paese è stato recentemente ferito in un agguato. Oggi è tornato a casa. Impossibile parlare con lui, neanche il parroco ha potuto avvicinarlo. L’addetto stampa dell’esercito fa da filtro e dirama comunicati ufficiali. Il giornalista della testata diocesana viene tenuto a distanza. Ci saranno delle ragioni, penso più dettate dalla politica che dalla strategia militare. Certamente è un atteggiamento che delinea con chiarezza la distanza tra la vita di ogni giorno e la guerra (o, bisogna dire, la "missione di pace"). La freddezza riscontrata, non certo per scelte del giovane o della sua famiglia, mi permette di esprimere un pensiero che mi frulla da parecchio e che non ho osato inviare prima, un po’ per rispetto e un po’ per debolezza. Ho notato che i mezzi di comunicazione danno grande rilievo alle disgrazie che succedono nei posti dove l’Italia è in guerra (o, bisogna dire, in "missione di pace"), che quando un soldato muore o rimane ferito si pronunciano ministri e alte personalità con servizi ben confezionati che illustrano il dolore di commilitoni e familiari. Massimo rispetto e pietà sia per i defunti che per le loro famiglie. Spesso donne giovani con figli piccoli o che devono ancora nascere, rimangono a piangere. Il dolore di queste famiglie è solo da condividere. Ma io mi chiedo e chiedo anche a lei : questi soldati che sono soldati per scelta libera, che sono militari di professione, che sono ben remunerati, mettono in conto che la morte è per loro un rischio fondato e concreto? E i politici e le autorità istituzionali se ne rendono conto o per loro è una sorpresa che un soldato possa morire in guerra (o, bisogna dire, "in missione di pace")? È ora di essere sinceri e di dire la verità: un soldato che muore, un soldato che viene ferito merita il massimo rispetto, esattamente come lo merita un camionista che muore in incidente stradale o un muratore che cade da un’impalcatura. Un soldato fa il suo lavoro come milioni di altri che svolgono un qualsiasi mestiere. Non si vedono politici e personalità importanti, riprese dalla televisione al funerale di un meschino che muore facendo il suo lavoro; non ci sono commenti di ministri e facce lunghe di commentatori televisivi. La mia domanda è semplice: perché? Mi piacerebbe avere una risposta sincera , non complicata, terra terra, come sono le persone che nascono e muoiono e nel frattempo cercano di vivere. Penso che fare un po’ di "silenzio stampa" sui militari impegnati in azioni di guerra, potrebbe snebbiare il cervello di noi poveri italiani che sempre di più siamo in libertà (di stampa) vigilata. Con vivissima stima per il suo Avvenire che mi piace molto: fermo e dolce.

Paola Montafia

Credo che tutti coloro che sacrificano la propria vita per un "bene" più grande meritino di ricevere omaggio e di essere ricordati con affetto e gratitudine. E credo, gentile signora Paola, che lei mi capirà benissimo se le dico che quando parlo di un "bene" più grande penso a ciò che davvero conta nella vita dei singoli e delle comunità, nelle esperienze, nelle speranze e nelle relazioni degli esseri umani. Lo scrivo alla rinfusa, senza ordini di priorità, ma parto – capirà anche questo – dalla fede: conta se ci si dà per Gesù Cristo. Conta se ci si dà per amore, per la famiglia, per la patria. E per dignità, lavorando e costruendo e insegnando (nei cento modi in cui questo è possibile). Conta se ci si sacrifica per la libertà di tutti. Per tenace onestà o per ordinaria rettitudine. Se lo si fa per la giustizia. E per la pace. Anche per la pace degli altri, soprattutto per la pace degli altri.Ha già capito, lo so, gentile amica lettrice, dove vado a parare: non credo che sarebbe giusto stendere un velo di silenzio su coloro che, ancora oggi, cadono lontano dalle loro case servendo in divisa l’Italia e contribuendo alla contraddittoria e a volte estenuante e quasi insopportabile fatica per affermare l’idea di un "codice" planetario dei diritti e e delle libertà fondamentali (questo, in sostanza, vuole dire agire su mandato e sotto egida delle Nazioni Unite). Non abbiamo bisogno di silenzio su questo, anzi. Serve che riflettiamo su ogni drammatica perdita (oggi eccezionale, grazie a Dio, agli uomini che hanno appreso la lezione terribile del Novecento e alla Costituzione repubblicana che «ripudia la guerra» come mezzo di aggressione), su ogni errore e su ogni infedeltà allo spirito di giustizia e di pace. E serve che pubblicamente questo sia affermato, ci colpisca e ci interroghi. È giusto inchinarci con solennità davanti a quei militari e concittadini che ci rimettono la vita. Come credo che sia giusto inchinarci – e, a volte, è accaduto che le nostre più alte autorità l’abbiano fatto con la stessa identica solennità – davanti a ogni caduto sul fronte nella resistenza civile alle mafie, a ogni morto sul lavoro (qualunque lavoro), a ogni volontario e missionario sacrificatosi servendo gli "ultimi" nella nostra Italia così come negli angoli meno illuminati (e raccontati) della Terra. Su queste pagine – non sempre con la giusta intensità, lo so – noi cerchiamo di farlo. Diamo omaggio, riconoscimento e affetto a tutti i caduti sul campo spesso aspro e dolente, ma necessario e splendido dell’umanizzazione del mondo. Posso prometterle che cercheremo di essere più attenti. Posso dirle che su nessuno saremo silenziosi. E sono sicuro che è questo che anche lei vuole. Un caro saluto.
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