martedì 6 gennaio 2009
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Mai come in questi giorni regna suprema l’incertezza sulla So­malia. Soprattutto da quando, ve­nerdì scorso, il governo di Addis A­beba ha dichiarato che il ritiro delle proprie truppe è stato avviato anche se ci vorrà del tempo per conclude­re le complesse operazioni di disim­pegno nel Paese africano sconvolto da una sanguinosa guerra civile. In effetti, testimoni oculari hanno rac­contato di aver visto, in questi gior­ni, lasciare la capitale, Mogadiscio, almeno tre colonne di camion con a bordo truppe etiopiche. Un chiaro segnale della volontà del premier Meles Zenawi di concludere una mis­sione militare che alla prova dei fat­ti si è rivelata fallimentare. Le truppe etiopiche che entrarono abbastanza repentinamente a Mo­gadiscio alla fine del 2006 – con il so­stegno della Casa Bianca, sbara­gliando i miliziani delle Corti islami­che, che fino a quel momento ave­vano il controllo di quasi tutto il Pae­se – fecero allora di tutte le erbe un fascio. Gli invasori infatti costrinse­ro alla fuga anche quelle componenti moderate del cartello islamico di­sponibili ad interloquire con la co­munità internazionale attraverso personaggi del calibro di Sheikh Fa­rah ' Janaqow', Omar Imam Abu­bakar e lo Sheikh Sharif Ahmed. Ora, a distanza di due anni dall’in­gresso degli etiopici in Somalia, il paradosso sta nel fatto che non so­lo gli insorti islamici potrebbero ri­prendere il potere in tempi brevis­simi, ma nel frattempo la loro lea­dership è passata definitivamente nelle mani degli estremisti di ' al Shabaab' che già applicano spieta­tamente la sharia, la legge islamica – recente la lapidazione di un’ado­lescente accusata di adulterio – nei territori sotto il proprio controllo. E mentre il Burundi e l’Uganda pon­gono in queste ore condizioni per il mantenimento delle loro truppe nella forza di peacekeeping dell’U­nione africana in Somalia – invo­cando soprattutto rinforzi oltre ad un mandato più forte – proseguono ad oltranza le scorribande dei pira­ti somali nelle acque dell’Oceano In­diano e particolarmente del Golfo di Aden. Secondo i dati forniti dall’Interna­tional Maritime Bureau ( Imb), que­sti moderni bucanieri hanno attual­mente in ostaggio 15 navi ed oltre 300 persone dei vari equipaggi. Nel solo 2008 sono stati oltre mille gli at­tacchi sferrati contro unità mercan­tili, per un totale di 120 milioni di dollari di riscatti incassati. Se da u­na parte è vero che la comunità in­ternazionale sta tentando di argina­re il fenomeno della pirateria, grazie all’impegno di navi da guerra che pattugliano costantemente le acque antistanti la costa somala, le Nazio­ni Unite sono in grave affanno. Anzitutto, per le proprie lentezze burocratiche che hanno vanificato l’implementazione dell’accordo di Gibuti, procrastinando la ratifica del protocollo al 19 agosto scorso, quando a fatica sono stati compo­sti il ' Comitato congiunto per la si­curezza' e un altro di ' alto livello' per le questioni legate alla coope­razione politica, la giustizia e la ri­conciliazione. L’uscita di scena poi, annunciata nei giorni scorsi, del più autorevole e competente mediato­re tra le parti in conflitto, l’inviato speciale del governo italiano Mario Raffaelli, non fa altro che acuire lo stallo in merito alle possibili inizia­tive negoziali. Intanto, a pagare il prezzo più alto è come al solito la povera gente. In Somalia gli sfollati sono oltre tre mi­lioni, circa un terzo dell’intera po­polazione, costretti a vivere in con­dizioni disumane.
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