Il necessario è troppo poco
domenica 11 dicembre 2016

Cerco la parola.
La nostra lingua è impotente,
i suoi suoni all’improvviso – poveri.
Cerco con lo sforzo della mente
cerco questa parola –
ma non riesco a trovarla.
Non riesco.

W. Szymborska, Cerco la parola

Nascosto nel cuore dell’umanità c’è sempre stato il desiderio profondo di una terra della gratuità. Una terra dove ogni uomo, ogni donna, ogni povero abbia pane, acqua, latte, miele, senza che l’accesso a questi beni fondamentali della vita sia mediato dal possesso del denaro. Perché sappiamo, sentiamo, che più profondo della legge del dare e dell’avere della moneta e della finanza c’è un legame di fraternità più vero delle diseguaglianze economiche e sociali, che ci chiama, e attende che lo scopriamo e lo riconosciamo. Questa terra della gratuità non l’abbiamo ancora trovata. Ci siamo fermati troppo presto, accontentandoci di società dove l’accesso alle cose è regolato dal registro monetario, da mercati esclusi a chi non ha nulla da offrire, o che ha beni diversi che i mercanti non vedono o non apprezzano. Eppure, mentre la moneta diventa sempre più il metro di misura di tutto e di tutti, i profeti continuano a tener viva la promessa di una terra diversa, sempre lontana, ma ancora viva finché c’è qualcuno capace di non smettere di desiderare l’impossibile, di non spegnere il sogno di una società del gratuito. Continuano a bagnare e fecondare la terra con le loro parole più grandi, a trasformarla, a redimerla, ogni giorno: «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte» (Isaia 55,1).

Dopo che il profeta ha intonato i canti del "servo di YHWH", diventando vittima schiacciata e scartata, che come agnello mansueto vive la sua sofferenza come "parto" di un popolo nuovo ricreato innocente dall’innocenza della vittima, ci imbattiamo con questa profezia di gratuità. Ci coglie di sorpresa, continua ancora a stupirci, a commuoverci con la sua bellezza - gli aggettivi della profezia sono molti, ne occorrono tanti per poterla dire almeno un po’: è vera, forte, indignata, consolatrice, ed è bella. Forse solo dopo aver visto il mondo dalla prospettiva degli ultimi, degli oppressi e umiliati, e magari dopo aver assaporato il lato crudo della vita, dopo le salite dei monti Moria e dei Golgota, è possibile capire veramente qualcosa del valore e del prezzo della gratuità e della sua tipica bellezza.

Solo chi ha sete e fame veramente può capire il valore di un bicchiere d’acqua e di un pezzo di pane donati. E solo chi ha fame e sete capisce il valore della festa, del superfluo: del "vino e del latte". I profeti, maestri di umanità vera, sanno bene che molte persone muoiono per mancanza di pane e di acqua; ma sanno anche che ce ne sono altrettante che muoiono per carestia di gioia e di festa: perché "non hanno più vino". Hanno occhi per vedere anche la fame e la sete di bellezza, di gratuità, di festa; vedono le carestie di beni primari e le carestie dell’eccedenza, la fame e la sete del "di più". Perché, diversamente dagli altri esseri viventi, quando a noi uomini e donne manca il "di più" non ci è sufficiente neanche il necessario, e ci lasciamo morire quando sulla nostra tavola mancano il "vino" dell’amicizia o il "latte" della stima.

Con soli pane e acqua si sopravvive per un po’, ma non si riesce a vivere a lungo. Alla gratuità mancherebbe una nota essenziale se si limitasse al dono di ciò che è necessario: la gratuità senza eccedenza non sarebbe abbastanza gratuita. Il necessario è troppo poco. Come quando ci accordiamo con un caro amico, o con nostra moglie, che in quest’anno di crisi economica a Natale non ci scambieremo doni, ma solo un bigliettino; ma poi se la sera dello scambio degli auguri oltre al biglietto concordato non c’è almeno un fiore, un "di più", non siamo veramente felici. È il "di più" che umanizza i nostri rapporti necessari, che genera la gioia, il sacramento di ogni eccedenza, il fiore della gratuità.

La profezia di gratuità del secondo Isaia non finisce qui, e continua fino alla conclusione del suo cantico. Le grandi parole sull’Immanuel, sul "resto" fedele, sulle spade trasformate in aratri, gli immensi canti del servo, sono parole che da millenni stanno fecondando la terra; l’hanno fatta diversa, migliore, certamente più fertile, più bella. Senza la profezia e senza il libro di Isaia non avremmo potuto capire bene e raccontare la vita, la morte e la resurrezione di Cristo, avremmo avuto parole più povere per dire le nostre paci dopo le guerre, i poeti e gli scrittori avrebbero parole meno parlanti per cantare la nostra speranza e i nostri dolori.

Avremmo chiese e cattedrali meno belle, ricche e colorate, sinfonie e opere con note meno profonde. Avremmo meno sostantivi e verbi per ricordare Auschwitz, per capire il dolore e l’angoscia delle vittime e magari cercare di salvarle, per dirci e dire le nostre sofferenze e gioie più grandi. Basterebbe il dono di queste parole per essere eternamente grati ai profeti biblici, a tutti, certamente al libro di Isaia. Ma anche le parole sulla gratuità universale del pane e del latte, parole più umili e semplici dei grandi canti e inni (della gratuità è possibile parlare bene soltanto sottovoce, sussurrandola, perché è essa stessa che si dice mentre la viviamo) hanno irrigato e fecondato la terra, hanno cambiato il tempo e la storia: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me vuota, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (55,10-11).

La parola è efficace, porta frutto soprattutto quando penetra nella terra e scompare dal suolo. È come la buona pioggia e la neve, mentre sembrano sparire dalla superficie è lì che iniziano a operare veramente, a far maturare i semi nel sottosuolo. Se la parola agisce mentre penetra nel terreno e scompare, non dobbiamo cercarla nella superficie delle nostre città, perché deve essere assorbita per poter agire in profondità. Se prendiamo sul serio questa immagine del secondo Isaia, non possiamo allora leggere la storia dell’Europa, dell’occidente, del cristianesimo, come un processo di decadimento, un progressivo allontanamento da un Eden primitivo e lontano – anche se molti lo fanno, ciascuno con il suo proprio Eden. Ma dovremmo leggere questa stessa storia come una lenta fioritura del seme della parola che non è tornata vuota. È questa una lettura più vera della storia, più biblica e profetica. La gratuità di cibo e di acqua che l’antico Israele praticava mentre il secondo Isaia diceva quelle parole, erano quelle consentite dalle istituzioni della decima, della spigolatura, del tempio. I lebbrosi erano scartati ed emarginati fuori della città, e le vedove, gli orfani e la maggior parte del popolo viveva in condizioni costanti di miseria e di deprivazione.

I cristiani, poi, hanno continuato a leggere e a proclamare quelle stesse parole, riprese e amplificate dall’insegnamento evangelico, e nel corso di molti secoli quella parola ha iniziato a far sbocciare i semi dei Monti di Pietà dei francescani, poi delle scuole, degli ospedali, delle molte opere sociali dei movimenti carismatici moderni. E oggi lo Stato sociale, le pensioni, il reddito di cittadinanza, i molti movimenti che mentre noi dormiamo vanno lungo le strade a liberare schiave, nelle stazioni non per partire ma per restare accanto, nutrire, scaldare chi non riesce a ripartire per nuovi viaggi. E poi la democrazia, i diritti per tanti, qualche volta per tutti, la libertà, l’uguaglianza, qualche volta la fraternità, fioriti grazie all’acqua e alla neve della parola biblica – ed altre acque e altre nevi di altre profezie religiose e civili. Semi buoni maturati e cresciuti nel nostro campo, insieme alla zizzania, ma dove il grano è stato ed è più abbondante, più forte – l’acqua e la neve bagnano e nutrono tutti i semi. Quella parola caduta originariamente e in abbondanza su Gerusalemme, sulla Palestina, continua a irrigare la nostra vita anche se non la vediamo più, anche se oggi non riusciamo più a riconoscere la prima acqua nei frutti che mangiamo, e ad esserle grati. Sta anche in questo suo scomparire la gratuità necessaria della parola.

Questa logica della parola che agisce scomparendo ci fa poi comprendere anche il cammino morale e spirituale della singola persona che l’accoglie. La parola che ascoltiamo da giovani, quella che è caduta, come acqua e neve, sopra gli anni migliori della nostra vita, deve scomparire se vogliamo che porti frutto, perché deve essere assorbita dalla nostra carne e dal nostro cuore. Non va raccolta con teli di plastica o nelle cisterne, non va conservata per paura che si disperda, perché è quando non la vediamo più che inizia la sua opera. Per far fiorire i semi deve penetrare nelle midolla dell’anima e dell’intelligenza, e così non riusciamo più a vederla di fronte a noi. È quando scompare che la parola inizia a svolgere la funzione per cui "è stata mandata".

E allora, quando la neve si scioglie e il paesaggio perde la sua purezza e il suo silenzio, quando non troviamo più le parole del primo amore e la terra appare arida, quando non sentiamo più la freschezza dell’acqua che bagna le foglie, né il tepore buono della neve che ricopre la nostra terra, è proprio lì che la parola sta operando veramente per svolgere la sua funzione più preziosa. C’è un primo tempo della parola quando ci bagna, la vediamo, ci inonda, ricopre tutto il nostro paesaggio: è di fronte, sopra, accanto a noi. Ma se vogliamo che arrivino i frutti, questa prima fase deve finire. Ciò che ci appare come assenza e nostalgia è solo il tempo della maturazione del seme. La benedizione più grande della parola è la parte che non si vede più, perché mentre svanisce nutre e vivifica noi e la terra. La verità della parola si misura dai semi e dai frutti che fa sbocciare nel nostro campo, quando sembra non esserci più.

l.bruni@lumsa.it


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