Il tempo è bene comune, ma lo abbiamo dimenticato
domenica 29 novembre 2020

Il tempo è di Dio. Quindi l’usuraio, che vende il tempo, lucra su un bene non suo. Era questa una delle argomentazioni più antiche contro il prestito a interesse. In questa natura divina del tempo si nasconde però qualcos’altro di molto importante per capire la nascita del capitalismo: «L’usuraio agisce contro la legge naturale universale, perché egli vende il tempo, che è comune a tutte le creature. Poiché dunque l’usuraio vende ciò che appartiene necessariamente a tutte le creature, egli lede tutte le creature in generale; anche le pietre, donde risulta che anche se gli uomini tacessero davanti agli usurai le pietre griderebbero». Nella sua "Summa aurea", Guglielmo d’Auxerre (1160-1229) aggiunge qui una dimensione importante, espressione dell’umanesimo biblico. Il tempo è di Dio quindi è «comune a tutte le creature». È un bene comune, e in quanto tale non può essere oggetto di commercio a scopo di lucro. Sarebbe appropriazione privata di un bene comune. Il tempo, dunque, non sarebbe solo un bene divino, ma anche un bene comune globale e cosmico («le pietre»).

L’umanità biblica aveva imparato la natura del tempo soprattutto durante l’esilio babilonese. Lì maturò lo shabbat, un giorno con un tempo di qualità diversa che con la sua sola presenza rende tutto il tempo non appropriabile. Perché se c’è un giorno della settimana non a disposizione dell’uomo in quanto fuori dal suo dominio e dal suo imperio, allora su tutto il tempo c’è un crisma di gratuità che lo pone al di fuori del registro acquisitivo e commerciale. Ecco perché in quello stesso esilio maturò in Israele il divieto di prestito a interesse. Il tempo biblico è dono e tutta la terra è terra promessa mai raggiunta. Forse l’eredità biblica più importante è un rapporto non-predatorio con il tempo e con la terra. Inoltre, il tempo biblico porta iscritto in sé il segno del peccato. L’uscita dal tempo ciclico dell’Eden e l’ingresso nel tempo storico è figlio di un disordine nel rapporto tra gli umani, tra gli umani e la creazione (il serpente) e tra la creazione e Dio. Il tempo degli uomini nasce ferito, anche se quella ferita ha generato la benedizione dell’Alleanza e un’altra salvezza. L’umanesimo biblico ha anche inventato il tempo storico e lineare, perché la storia tende verso un fine, ha un inizio e guarda in avanti. La Bibbia ha, insomma, inventato il futuro, e quindi il passato. Il suo tempo non è ciclico, mitico, circolare. L’Alleanza e l’attesa del Messia hanno dato al tempo una direzione, hanno posto sulla punta della linea del tempo una freccia, un senso. Il cristianesimo, poi, con l’incarnazione e la resurrezione ha rafforzato e radicalizzato questa natura lineare del tempo.

Ma esiste una tensione necessaria tra il tempo lineare e il tempo bene comune. Finché il mondo è restato statico e molto lento, la Chiesa è riuscita a tenerli insieme. Lo ha fatto con diversi strumenti. Innanzitutto nei monasteri, con l’organizzazione della liturgia. Il tempo liturgico è un meccanismo che intrappola lo scorrere lineare del tempo dentro un ritmo circolare, dove il tempo rituale vince il tempo storico. Il tempo-quantità scorre e passa, ma il tempo-qualità, scandito dalla liturgia, dona al tempo umano un timbro divino e quindi eterno. I monasteri incantavano le persone perché promettevano una vita eterna, di sconfiggere la morte. Nella vita dei laici, poi, i calendari, le feste, le campane, il ritmo della vita e delle stagioni, i tempi ciclici dell’anno liturgico, cercavano di curvare il tempo lineare per contenerlo dentro il ciclo costante e perenne della religione. Lo spazio era segnato e marcato dalle immagini e dai segni sacri, edicole, tabernacoli, e le distanze misurate ad "avemarie". Così il tempo passava, ma a un livello profondo restava lo stesso. Era come se il tempo avesse due livelli: uno più superficiale che scorreva linearmente, e uno più profondo che restava immutato perché divino. In questo umanesimo non c’erano quindi le pre-condizioni culturali e concrete per rendere legittimo il prestito a interesse. E chi chiedeva il compenso per un tempo che in profondità non cambiava, faceva un atto contro natura – contro la natura del tempo.

Quando tutto ciò entrò in crisi? Quando cominciò a cambiare il mondo. Pensiamo all’arte, e ai primi tentativi di introdurre, già con Giotto, la profondità e lo spazio reale dentro gli affreschi, che produssero la prospettiva, dove il tempo e il movimento entrano nella pittura. L’epoca di Guglielmo di Auxerre era poi anche quella di Gioacchino da Fiore e della sua teologia dell’avvento prossimo dell’«età dello Spirito», che avrebbe fatto seguito a quella del Padre (Antico Testamento) e a quella del Figlio (Nuovo testamento). La sua era una visione qualitativa del tempo, guidata da un meccanismo dinamico. La fine della vita di Gioacchino (1202) si interseca con l’inizio di quella di Francesco. I francescani escono dalle mura dei monasteri per tornare nomadi e mendicanti lungo le strade. In questi stessi anni, ripartono anche i pellegrinaggi. E con il movimento inizia a cambiare il senso del tempo.

Altri grandi camminatori e attraversatori di spazi erano i mercanti: «Tutti gli humani devono aspirare all’acquisto delle Virtù, dalle quali vien partorita la Gloria; e fra le molte vie, che a quella conducono, tre specialmente sono le più comuni. L’una delle armi, l’altra delle lettere, e quella dei Negozi. La prima è pericolosa, la seconda quieta, la terza faticosa» (Giovanni Domenico Peri, "Il negoziante", 1672). Fu l’avvento dei mercanti quello decisivo per la rivoluzione nella concezione del tempo. Il mercante attraversa città e regioni, organizza operazioni complesse, crea un rapporto nuovo con il tempo. Vive di tempo: deve prevedere le oscillazioni dei mercati, le inflazioni, le guerre, le carestie. Deve speculare (parola che viene da specula, specere: guardare lontano) sui differenziali delle quotazioni delle monete, che in quel tempo erano moltissime, compresa la "moneta immaginaria" presente sui mercati europei tra Carlo Magno e la rivoluzione francese. Il mercante inventa contratti nuovi (lettere di cambio, commenda), crea le prime forme di assicurazione, impara a convivere col rischio. Anche il contadino dipendeva dal tempo e dal rischio, ma il tempo della campagna e delle stagioni era un tempo "subìto", ingestibile, libero e padrone. Il mercante no: lui anticipa il tempo, lo controlla, lo asservisce, ne fa il primo elemento del suo business. Diventa un esperto del tempo. Nel suo mestiere il presente diventa futuro (cambiali) e il futuro presente (sconto). Per il contadino il tempo è un vincolo, per il mercante la sua prima opportunità. Il contadino continuerà a misurare le distanze in "avemarie", il mercante con mappe e astrolabio. Il contadino vive in un luogo, il mercante abita lo spazio.

Il mercante allora commercia con il tempo, e così il tempo economico inizia a non essere più il tempo della Chiesa. Ma fu la stessa Chiesa a rendere lecito, o almeno possibile, il commercio del tempo. Lo fece con la creazione del Purgatorio. In questo stesso periodo esplode, infatti, in Europa la realtà del Purgatorio (già presente nei primi secoli cristiani), che svolse un ruolo centrale nel cambiamento della nozione di tempo (Jacques Le Goff). Con il Purgatorio la struttura binaria che aveva dominato il primo millennio – inferno/paradiso, città di Dio/città dell’uomo, virtù/vizio... – evolve in ternaria. Prima che il tempo iniziasse a essere venduto dai mercanti e dai banchieri con la legittimazione del tasso d’interesse, il tempo era stato venduto con il Purgatorio. Perché, visto da questa prospettiva, il Purgatorio non è altro che la possibilità di comprare tempo sulla terra a vantaggio dei morti. Pregare e pagare indulgenze per i defunti significa fare del tempo un oggetto di scambio. In una visione binaria e polare paradiso/inferno il tempo non può essere in vendita, perché non c’è modo sulla terra di influenzare il cielo. Coll’introduzione della "terza via" del Purgatorio le azioni sulla terra modificano il tempo dei defunti. E se si può mercanteggiare il tempo dei morti, possiamo farlo anche con quello dei vivi.

Il passaggio da un mondo "a due" ad un mondo "a tre" sviluppò, poi, dentro lo stesso cristianesimo lo spazio dell’imperfezione, delle realtà intermedie, della terra di mezzo, dei compromessi, dei condoni, dell’arancione nei semafori; delle mediazioni tra divieto e liceità, tra tempo divino e tempo mercantile. Iniziano o si amplificano le casistiche, le distinzioni, le differenze: quelle tra danno emergente e lucro cessante, tra interesse-profitto e interesse-rendita. Il tempo uscì dal dominio esclusivo di Dio e della religione. Dapprima divenne un dominio condiviso e conteso tra Dio e l’uomo. L’antica natura divina e di bene comune del tempo non scomparve, divenne parziale ma restò viva e operante, e consentì per molti secoli di distinguere tra uso lecito e illecito del tempo, tra interessi buoni e interessi usurai, tra mercanti virtuosi e disonesti, tra imprenditori e speculatori. Il mercante aveva impugnato qualche filo della corda del tempo ma all’altro capo restava salda la mano di Dio e quindi della comunità. Il tempo a proprietà mista ha consentito lo sviluppo dell’economia europea, e, al tempo stesso, l’ha tenuta ancorata alle comunità.

Con questo "tempo misto" siamo arrivati alle soglie della modernità, quando il tempo è divenuto solo una faccenda umana, e quindi totalmente e soltanto merce. Perdendo il suo legame con il divino, il tempo ha anche smarrito la natura di bene comune. E cancellando il tempo come bene comune abbiamo perso anche il senso del Bene comune. Ma anche se noi lo trattiamo come merce privata, il tempo resta un bene comune. E quindi è soggetto alla "tragedia dei beni comuni": usandolo con una logica privatistica lo stiamo distruggendo, senza accorgercene. La distruzione del tempo la vediamo con l’ambiente, dove la distruzione del tempo sta diventando distruzione del futuro in un’economia tutta giocata al presente. Un tempo non interamente merce e ancora bene comune legava le generazioni tra di loro, donava ai figli tempo per diventare migliori dei padri e delle madri. Dobbiamo reinventarci subito e insieme un rapporto non predatorio col tempo e con lo spazio. I giovani ci devono aiutare, senza di loro non ce la faremo, perché la nostra generazione ha disimparato un buon rapporto con il tempo e con la terra. Possiamo chiederlo ai giovani, dobbiamo chiederlo ai bambini.

l.bruni@lumsa.it

(4 - continua)

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