mercoledì 20 giugno 2012
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​«Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, e il figlio dell’uomo perché te ne curi?». A Rio de Janeiro si aprono i giorni della Conferenza mondiale dell’Onu sullo Sviluppo sostenibile, e mi vengono in mente le parole antiche del salmo che canta la bellezza del mondo. A Rio de Janeiro l’uomo, coscienza del mondo, sembra oggi un incerto padrone, in parte impaurito dai suoi errori insipienti, in parte incallito negli errori stessi che vorrebbe emendare. E il figlio dell’uomo è forse l’oggetto incluso d’un presente programmato dai vecchi, invece che il soggetto nuovo per il quale si programma il futuro.Si chiama "Rio + 20" perché sono passati vent’anni da quando, nella città carioca, si riunì la conferenza mondiale voluta dall’Onu. Speranze, promesse, un po’ di sogni, un po’ di impegni. E non era neppure la prima volta, se si rammenta che fin dal 1972 le Nazioni Unite avevano chiamato i reggitori del mondo ad ascoltare la voce dei molti che volevano il progresso umano dentro una terra messa in salvo dalla rovina. Da allora, decennio dopo decennio, ci insegue questo pensiero: una sorta di amore verso la terra, ora fattosi penitente a cercare riconciliazione col miracolo della vita e della bellezza che ci è toccato in sorte (e il pensiero della nostra aiuola fiorita nella gelida infinità delle galassie, mette i brividi) e che rischiamo di sciupare a morte. Appuntamento con la nostra stupefatta autocoscienza, proposta d’acqua o di fuoco alla nostra libertà continuamente sfidata, la riflessione sul cammino dell’uomo ci rincuora e ci angoscia.Ci rincuora intendere la bellezza del creato, imparare i segreti, conoscere le prodigiose forze, copiare i disegni imitabili, unire natura e cultura dentro una vocazione cosmica che ci fa sentire "dominatori". Ci angoscia la storia concreta dei nostri saccheggi e delle nostre follie, le deforestazioni, le desertificazioni, i veleni d’ogni genere che violentano l’ambiente. La dignità di ogni essere e specie, gli animali, le piante, le cose stesse che accendono gioia sono nostalgia d’un cosmo affidato al rischio delle nostre improvvide mani. Peggior sventura, quando siamo lupi fra noi, e l’aiuola ci fa feroci, ci separa in gaudenti e miserabili. Sempre le assise mondiali promettono di sconfiggere la fame, vergogna del mondo.Gli esiti passati non sono esaltanti. Rivoluzione promessa, rivoluzione tradita. Pure, questa periodica liturgia terrestre dove la fraternità è almeno sognata va incoraggiata. Epperò umanizzata radicalmente, pensando all’umanità ventura, al "figlio dell’uomo" come alla risorsa creativa e sapiente a cui passano le redini del mondo. Torneranno i discorsi malthusiani, le suggestioni pianificatorie e quella specie di lotta alla vita che respinge chi è giudicato eccedente, perché affolla le tende e le mense nostre. Anche questo ci inganna. Non si tratta di essere "natalisti", la procreazione umana dev’essere responsabile, proprio perché la sua sorgente è l’amore (sponsale) e il suo frutto è l’amore (parentale-filiale). Ma il volto del figlio sta in altro orizzonte rispetto a ciò che si chiama "salute riproduttiva", perché la vita non appartiene all’avere, ma al donare. Se di questa antropologia corta, asfittica, si ammalano le conferenze mondiali, possono essere risucchiati nel vortice dei variopinti egoismi i propositi comuni di salvare la terra.
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