venerdì 1 maggio 2020
I capi di Stato di 5 Paesi della «cintura del deserto» si appellano all’Europa Con la pandemia di Covid-19 aumenta l’instabilità. La sofferenza dei cristiani
Militanti di Boko Haram in Nigeria

Militanti di Boko Haram in Nigeria - Reuters

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La pandemia di Covid 19 avanza in tutta l’Africa ma non ferma gli attacchi e l’azione dei gruppi terroristici islamici, che continuano a imperversare sulle piste che si alternano lungo la fascia del Sahel. Il “bordo del deserto”, 5mila chilometri che si estendono dal Sahara Occidentale alla savana del Sudan meridiona-le, resta terreno di conquista jihadista. L’aggravarsi della situazione ha spinto a riunirsi il 28 aprile in videoconferenza, in un vertice di emergenza, il gruppo G5 Sahel con i rappresentanti dell’Unione Europea. I capi di Stato dei paesi membri della coalizione saheliana (Mali, Burkina Faso, Ciad, Mauritania e Niger) attraverso il portavoce di turno, il presidente mauritano Mohamed Ould Cheikh Ghazouani, hanno evidenziato l’importanza del sostegno al gruppo per preservare i risultati ottenuti nel contrasto al terrorismo islamico. In particolare hanno chiesto l’invio “il prima possibile” di un battaglione di 500 militari a rinforzo della strategia antiterrorista regionale.


L’emergenza sanitaria sta aggiungendo un fattore di insicurezza nella regione africana

Ghazouani ha anche posto l’accento sulla pericolosità delle conseguenze che la pandemia sta causando in termini di sicurezza, stabilità e sviluppo in tutto il Sahel. La diffusione del coronavirus ha destabilizzato ulteriormente la situazione, essendo i paesi coinvolti nell’operazione militare gravati anche dall’azione di contrasto all’emergenza sanitaria. Il vertice straordinario mira quindi a far crescere in Europa la consapevolezza che le scarse risorse economiche destinate al contingente impegnato sul terreno rischiano di vanificare i successi ottenuti. Attraversando già nei mesi scorsi Mauritania, Mali e Burkina Faso, a sud dell’Algeria, si avvertiva la tensione crescente che avvicinandosi a Niger e Ciad diventava vera e propria allerta: la regione è più instabile che mai. I conflitti in corso nella parte settentrionale e occidentale del continente, compresa la guerra civile in Libia e gli scontri tra militanti tuareg e forze del Mali, hanno favorito il proliferare di bande armate jihadiste.

Dall’inizio del 2020 sono stati registrati un centinaio di attacchi che hanno causato un migliaio di morti. I principali responsabili delle azioni terroristiche sono i miliziani del Daesh (lo Stato islamico) in Africa occidentale, fazione secessionista di Boko Haram, che colpisce sia obiettivi civili che militari. Stesso quadro in Burkina Faso, dove a fine anno le vittime degli attacchi erano oltre 1.800. Dati dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati rilevano che le violenze hanno determinato una media giornaliera di 4.000 persone in fuga dal Burkina Faso per cercare di mettersi in salvo. Ad oggi circa 800mila persone, delle quali l’80% negli ultimi 12 mesi, sono state costrette a lascia- re le proprie case. Un numero 16 volte maggiore rispetto a quello registrato nello stesso periodo lo scorso anno. «Gli attacchi nei villaggi sono continui, come i raid di gruppi di giovani armati, a volte molto giovani, contro missionari e cooperanti – racconta padre Mauro Armanino, missionario della Società delle Missioni Africane che opera in Niger –. Spesso se la prendono con persone singole con l’intento di promuovere l’islam radicale o fanno irruzione nelle strutture scolastiche, distruggendo e bruciando tutto. Le famiglie che mandano a scuola i bambini, sia alle elementari che alle superiori, sono costrette a fuggire. I jihadisti impongono agli abitanti dei villaggi l’osservanza dei precetti del profeta Maometto: niente feste, alcool, tabacco, taglio di alberi, scuole occidentali e cristiani. Le donne devono usare il velo se vogliono essere al sicuro e proteggere i loro bambini».

La situazione per i cristiani è ormai insostenibile. Già prima della pandemia bisognava pregare nelle case, nelle famiglie, in piccoli gruppi e di nascosto, con i vicini “fidati”. Nonostante nei Paesi del Sahel sia formalmente riconosciuta la libertà di religione, di culto e di lingua, secondo padre Mauro, è sempre più diffusa una sorta di “dittatura” jihadista che si sta imponendo in tutta la regione. «Con l’intimidazione e le minacce si stanno modificando gli stili di vita, le scelte quotidiane delle persone – sottolinea il missionario – e soprattutto si vuole sradicare totalmente il culto cristiano». Il pretesto religioso sembra far breccia sulle comunità stremate dalla paura, dalla miseria e dalla disoccupazione, il tutto gravato dall’assenza cronica dello Stato. La sensazione di abbandono da parte dei governi che accentrano interessi e investimenti intorno alle capitali disinteressandosi delle periferie, favorisce il rancore nelle province dove le emergenze sanitarie, la fame e l’insicurezza toccano la maggioranza della popolazione. In questo contesto i gruppi armati offrono servizi di “welfare” che vanno a sopperire le lacune delle autorità locali.

«Stiamo assistendo a una crescita esponenziale dell’influenza islamista nella regione – conferma Abubakar Kavasala, analista burkinabe e consulente delle Nazioni Unite – un fenomeno pericoloso quanto l’aumento delle violenze. La sensazione è di un crescente vuoto di sicurezza nelle aree rurali dove lo Stato si è rivelato incapace di fornire prima servizi pubblici basilari e poi di frenare l’espansione dei gruppi armati». La comunità internazionale, che per cercare di limitare l’azione jihadista aveva sostenuto nel 2014 la nascita del “G5 du Sahel”, alleanza promossa principalmente dalla Francia. Presenti in Mali già dal 2013, i francesi hanno avviato l’operazione anti–terrorismo “Barkhane”, 4.500 unità militari organizzate in tre battaglioni, destinata a sostenere e razionalizzare gli eserciti regionali. Ma l’azione di «coordinamento per l’attività securitaria», come è stata definita la missione, è apparsa da subito poco efficace. Non si riesce a garantire neanche l’incolumità dello stesso contingente.


Le violenze del Daesh spingono 4.000 persone al giorno in media a fuggire dal Burkina Faso per cercare di mettersi in salvo
A oggi circa 800mila persone sono state costrette a lasciare le proprie case
La Francia ha lanciato un avvertimento: la lotta al terrorismo continua ma non possiamo portarla avanti da soli

Per fronteggiare l’aumento delle violenze regionali, il presidente Emmanuel Macron aveva convocato lo scorso 13 gennaio un incontro straordinario dei leader del G5 Sahel. A inizio febbraio i capi della difesa dell’Eliseo avevano ordinato, in risposta alle conclusioni molto allarmanti del summit, il dispiegamento di ulteriori 600 soldati per rafforzare l’operazione Barkhane. «La maggior parte dei militari è stata inviata nella zona delle tre frontiere tra Mali, Burkina Faso e Niger – sottolinea Kavasala –. L’altra parte dei rinforzi sarà direttamente coinvolta nei combattimenti tra le truppe del G5 Sahel e i terroristi». I soldati sono arrivati nella zona di conflitto a fine di febbraio, viaggiando con carri armati, veicoli corazzati leggeri e materiale di supporto logistico. Il governo francese, dopo l’annuncio del nuovo impegno, ha voluto rimarcare che quell’ennesimo e «significativo passo in avanti» rappresentava un momento chiave per «la mobilitazione dei partner europei e il rafforzamento delle forze del G5».

In sostanza, la Francia ha voluto lanciare un avvertimento: la lotta al terrorismo nel Sahel continua ma non possiamo portarla avanti da soli. In tale contesto, si inserisce il viaggio che ha inaugurato le visite ufficiali nel 2020 della ministra della Difesa francese, Florence Parly, negli Stati Uniti, dove ha incontrato il suo omologo, Mark Esper, nel tentativo di convincere gli americani a confermare il loro coinvolgimento in Africa, dove la logistica e l’intelligence messe in campo dal Pentagono sono considerate cruciali per l’operazione Barkhane.

Il segretario di Stato alla Difesa statunitense, anche in risposta alle pressioni dell’Eliseo, ha predisposto una revisione globale delle truppe volta a liberare risorse da poter impiegare sul terreno africano come ha confermato il generale Stephen Townsend, considerato il più grande stratega a stelle e strisce in Africa, durante un’audizione al Congresso mettendo in guardia sul proliferare, e di conseguenza del consolidamento, dei gruppi jihadisti nella regione africana. Gli attori internazionali coinvolti sul terreno saheliano sanno di dover compiere uno sforzo in più. Già nell’agosto del 2019, al G7 di Biarritz, il presidente Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel avevano lanciato un appello per rafforzare ed espandere il G5 Sahel. Ma il quadro che si è delineato successivamente è rimasto frammentario, nulla di più deleterio a fronte di una situazione che rischia di implodere per l’assenza di una politica condivisa.

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