domenica 2 agosto 2009
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«Il mondo è delle donne». Paro­la del sociologo francese Alain Touraine che in un recente studio, da poco in libreria, offre un accurato re­soconto sulla condizione attuale del­la donna attraverso una serie di son­daggi e di interviste finalizzate a co­gliere gli esiti del femminismo euro­peo in piena epoca globalizzata. Alla domanda su che cosa significhi oggi conquistare la propria identità, la ri­sposta – così si dice – è unanime: 'Io sono una donna, costruisco me stes­sa in quanto donna attraverso la mia sessualità'. Dopo un secolo di conquiste dei di­ritti civili e di rivendicazioni sociali, lo slogan di un certo femminismo non pare cambiato: il corpo è mio, lo ge­stisco come meglio credo, e solo in questo modo esprimo la mia iden­tità. Se sorgono problemi, sono sem­pre io che decido. In questo scenario è facile compren­dere come per quel femminismo di­venga istintivamente più facile ac­cettare – dietro l’innocua etichetta­tura linguistico-matematica Ru486 – risolvere e realizzare un proprio as­serito «diritto», passando attraverso l’assunzione di due pillole e un bic­chiere d’acqua. Ancora più semplice e sbrigativo del dramma dell’aborto chirurgico. Se le cose stanno così questo femmi­nismo continua suo malgrado a la­vorare contro le donne, la cui dignità, ricondotta sul binario dell’utilizzo strumentale del proprio corpo, sem­bra beffardamente ripercorrere la strada del maschilismo più hard, quello che continua a vedere la don­na come strumento sessuale. Che non sia invece giunto il momen­to, da parte delle donne, di immagi­nare una nuova strategia culturale, in grado di porre mano alla ristruttura­zione della simbolica del corpo, co­me luogo in cui si celebra la verità del­la carne? Proviamo a pensare in concreto a u­na giovane donna, decisa ad aborti­re e che, giunta in ospedale e attra­verso una prassi fredda e consolida­ta, viene invitata a bere un sorso d’ac­qua e il concentrato chimico aborti­vo. Dopo può andare a casa e torna­re dopo due giorni per completare il protocollo. Segno ulteriore del para­digma funzionalistico e spersonaliz­zante della prassi medico-ospedalie­ra, tale strumento non abbisogna neppure di quelle pratiche di assi­stenza medico- psicologica, spesso disattese, ma di cui parla la 194... Tut­to avviene così in tempi abbreviati, in modo tale che il 'problema' pos­sa infine sciogliersi nella solitudine e nell’indifferenza. Oltre i pericoli concreti per la sua sa­lute, a opera di un mezzo chimico che comunque è sempre segnale di vio­lenza sul proprio corpo, quella gio­vane donna sarà progressivamente soggetta – perché non dirlo? – all’o­scuramento della voce della sua car­ne. Che non significa soltanto, come in ogni aborto, lo spegnimento di u­na vita nascente – il che è drammati­camente tanto, tutto – ma anche la sordità al linguaggio del proprio cor­po, che, in armonia con la propria mente e con il proprio cuore, è in­tenzionalmente orientato a farsi stru­mento di comunicazione e di poten­ziamento delle relazioni umane. Vera metafora sociale, il nostro corpo, che va ascoltato, accolto, difeso, e­sprime sempre ospitalità, volontà di accogliere la voce dell’altro, desiderio di relazioni appaganti, tensione e a­pertura alle manifestazioni della vita, che non possono essere comandate secondo la misura del nostro arbitrio. Con buona pace di Alain Touraine, il mondo non è ancora né delle donne né degli uomini, ma solo di coloro che sanno attendere con rispetto il cam­mino lento della vita senza prevari­cazioni e inutili scappatoie.
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