Nelle dimostrazioni che stanno agitando da diverse settimane Beirut e il Libano i rifugiati non compaiono. Sono troppo fragili e impauriti per protestare, impegnati in una lotta quotidiana per sopravvivere. E i libanesi scesi in piazza sono troppo frustrati e arrabbiati per preoccuparsi di coinvolgerli.
Secondo le cifre dell’Onu, i 'nuovi arrivati' che hanno cercato scampo in Libano, quasi tutti siriani, sono circa un milione su 4,5 milioni di abitanti, senza contare i palestinesi. Ogni mille abitanti se ne contano più di 150, ed è un record mondiale. Ma moltissimi non hanno un’identità legale: niente documenti, niente lavoro, niente diritti. Il Libano, pur essendo in prima linea nell’accoglienza dei siriani, non ha mai voluto riconoscerli, né ha firmato le convenzioni internazionali sull’asilo.
Le proteste anti governative a Beirut - Ansa
Tra le motivazioni, è difficile trascurare la tragica esperienza del conflitto con i palestinesi, tuttora insediati ai margini della società libanese, in campi profughi che sono diventati desolanti agglomerati autocostruiti alla meno peggio. Nel centro di Beirut i rifugiati sono quasi invisibili, salvo qualche bambino che chiede l’elemosina, qualcun altro che lavora in un negozio, qualche giovane donna che dorme per terra, sui marciapiedi, accompagnata da bambini ancora più piccoli. Gli aiuti delle organizzazioni umanitarie non bastano per tutti, o non consentono di arrivare a fine mese. Gli uomini se riescono lavorano, quasi sempre in nero, ma difficilmente escono dai quartieri poveri in cui sono precariamente alloggiati, in stabili abbandonati, gravemente danneggiati dalla guerra civile (19751990) e mai restaurati, in baracche, box trasformati in abitazioni o altre sistemazioni di fortuna. I padri se si spostano in città temono di essere intercettati dalla polizia, arrestati come immigrati illegali, malmenati, rinchiusi in prigione, e sempre più spesso espulsi verso la Siria. I minorenni sono circa la metà dei rifugiati, ma hanno accesso soltanto a un’istruzione elementare residuale: ai docenti delle scuole pubbliche è stato imposto di insegnare al pomeriggio ai piccoli profughi, ma senza integrazioni salariali.
Un’intera generazione, privata dell’istruzione, rischia di trascinare gli effetti della guerra siriana per decenni. Il Governo libanese con queste misure repressive cerca di indurre i profughi al rimpatrio, mi spiega Simone Scotta di 'Mediterranean Hope'. Qualcuno prova anche a ritornare, il confine siriano è vicino, ma poi in genere rientra in Libano. In Siria non solo l’economia è in ginocchio e molte città sono distrutte o semidi-strutte, ma i rifugiati sono attesi dalle temute forze di sicurezza del regime. Assad li considera traditori e ha annunciato la confisca di case e terreni lasciati dai fuggiaschi. Si parla di persone rientrate nel Paese, e poi prelevate e sparite nel nulla. A volte fanno tornare qualche parente anziano, per dimostrare che le proprietà non sono state abbandonate.
Qualcun altro ritorna invece per sottoporsi a cure mediche, inaccessibili in Libano dove la sanità è privatizzata, ma poi preferisce rientrare nel Paese dei Cedri. I rifugiati sono quindi presi fra due fuochi, indesiderati e perseguitati da una parte e dall’altra del confine, in uno stallo che per molti non lascia intravedere spiragli. Eppure qualche segno di speranza sbuca dalle pieghe di una Beirut inospitale. Una ricerca dell’Università Americana di Beirut presenta i rifugiati come soggetti attivi della città. Ne mostra le differenze interne, per livello sociale, istruzione, status legale.
Oltre ai giovani istruiti che lavorano nell’accoglienza con le Ong internazionali, un numero crescente di rifugiati apre negozietti e piccoli commerci. A centinaia s’ingegnano come fattorini della consegna dei pasti a domicilio. Qualcuno riesce a ottenere uno status legale grazie all’intermediazione di un garante, come prevedono le leggi libanesi: un aiuto raramente gratuito, ma comunque prezioso, letteralmente. Per tanti altri però i 'corridoi umanitari', o altre soluzioni di reinsediamento, appaiono l’unica via d’uscita da una situazione altrimenti senza sbocchi.
Quell’intuizione ecumenica dei cristiani italiani che ha già 'contagiato' Francia, Belgio e la piccola Andorra va potenziata e – come si progetta – finalmente estesa a livello europeo, se vogliamo evitare altre tragedie tra Siria e Libano.