venerdì 10 maggio 2013
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Come sempre le elezioni in Pakistan vengono vissute danzando sull’orlo dell’abisso. Gli slogan e i messaggi sottolineano la necessità di salvare il Paese dai suoi duraturi fantasmi: la corruzione dilagante, sempre combattuta a parole da ogni governo ma mai indebolita; le tendenze centrifughe e le ambizioni separatiste, che riemergono periodicamente fra i diversi gruppi etnici del paese; i germi della violenza settaria e dal fanatismo religioso. Curioso pensare che spesso coloro i quali invocano un’azione decisa contro gli estremisti siano gli stessi che li hanno blanditi e utilizzati quando erano al potere. Ma mai come quest’anno, la lunga campagna elettorale per le elezioni parlamentari dell’11 maggio si è rivelata violenta e insanguinata: non vi è giorno in cui non vi siano assalti, omicidi, attentati suicidi. Clamoroso l’assassinio di Chaudhry Zulfiqar, l’uomo che guidava le indagini per il mortale attentato, nel 2007, all’ex primo ministro Benazir Bhutto, tuttora irrisolto. Ed è di ieri la notizia del rapimento del figlio dell’ex premier Gilani nel bel mezzo di un comizio elettorale. In questa situazione si affrontano gli eterni sfidanti: il PPP (Partito del popolo del Pakistan), guidato dal vedovo della Bhutto, l’attuale presidente Asif Ali Zardari, epigone di una dinastia di primi ministro che risale agli anni ’70, e la Lega musulmana di Nawaz Sharif, anch’egli ex primo ministro degli anni ’90. Entrambi i leader hanno conosciuto il potere, l’arresto per corruzione e l’esilio. Ma per quella ciclicità che contraddistingue la politica del Paese, sono tornati dopo la fine della (blanda) dittatura militare di Musharraf e si contendono da anni il governo. A sostenerli, i loro partiti: i più strutturati, ramificati, clientelari e corrotti del Pakistan. Terzo incomodo è il Movimento per la giustizia di Imran Khan, celebre ex giocatore di cricket del Pakistan, star del jet set e da tempo in politica con un programma populista e anti-sistema, popolare soprattutto fra i giovani e nei centri urbani. Ma partiti e politici sono solo una parte del complesso gioco pachistano: le forze armate e i temibili servizi segreti militari (ISI) sono un elemento di potere da non sottovalutare, dato che la storia di questo Paese è un continuo alternarsi di governi civili e militari. In questi ultimi anni essi sembrano stare alla finestra: non mirano al potere, ma si "accontentano" dell’autonomia totale che il fragile presidente Zardari ha dovuto concedere loro.Sullo sfondo, gli intricati nodi e le contraddizioni che minano la stabilità pachistana, prima fra tutte la violenza dei movimenti islamisti radicali e jihadisti che sembra impossibile fermare. Avendo creato i taleban e soffiato sul fuoco dell’estremismo islamista, Islamabad sembra oggi priva di anticorpi per fermare la "talebanizzazione" di interi distretti e province. E nonostante le pressioni di Washington, militari e gruppi di pressione continuano a sostenere gruppi di taleban pashtun che puntano a rovesciare il governo afghano e ripristinare il famigerato emirato islamico del Mullah Omar. Del resto, la partita afghana è geopoliticamente troppo importante perché il Pakistan si ritiri da essa, tanto più che il confronto con la rivale India – ormai potenza di caratura mondiale – è sempre più umiliante per Islamabad. Anche a costo di mettere a rischio la propria stabilità e la propria economia, piegata dalla corruzione e dalle inefficienze, dalla continua crescita della popolazione e dalle insostenibili spese per mantenere i privilegi e le ambizioni del ceto militare. Il sospetto è che chiunque vinca queste elezioni si ritrovi a dover gestire le molte emergenze senza poter veramente incidere sulle grandi scelte geopolitiche e attuare quelle riforme di cui il Pakistan ha disperato bisogno. Mentre il terreno vicino al baratro si fa sempre più sdrucciolevole.
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