sabato 27 ottobre 2012
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Il nostro è il Paese più bello del mondo, ma anche il più fragile. I terremoti nel Pollino, in Emilia, in Abruzzo non sono eventi straordinari per l’Italia. Un recente rapporto dell’Ance-Cresme sgrana un rosario di criticità: le aree a elevato rischio sismico sono circa il 44% della superficie nazionale (131 mila kmq) e interessano il 36% dei comuni (2.893); le aree a forte criticità idrogeologica (frana e/o alluvione) rappresentano circa il 10% della superficie italiana (29.500 kmq), ma riguardano l’89% dei Comuni (6.631). Nelle aree ad elevato rischio sismico vivono 21,8 milioni di persone (36% della popolazione), per un totale di 8,6 milioni di famiglie e 5,5 milioni di edifici tra residenziali e non residenziali, il 60% costruiti prima delle normative antisismiche.Il rischio riguarda soprattutto le regioni della fascia appenninica e del Mezzogiorno. Al primo posto c’è la Campania, in cui 5,3 milioni di abitanti vivono in 489 Comuni a rischio terremoto. Segue la Sicilia con 4,7 milioni in 356 Comuni. La fragilità non nasce solo dalla conformazione del territorio, ma anche dalle modalità con cui si è costruito: dalla incapacità, soprattutto dal dopoguerra, di preservare il paesaggio; dalla voracità con cui l’abbiamo consumato, ferito e deturpato.Lo denunciava a settembre il premier Mario Monti presentando il disegno di legge sulla valorizzazione delle aree agricole: «Negli ultimi quarant’anni si è cementificato un territorio equivalente a Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna». Cento ettari di superficie libera 'bruciati' al giorno: dal 1956 al 2012 il territorio nazionale edificato è aumentato del 166%. Il Piano nazionale per la manutenzione e la messa in sicurezza del territorio dai rischi idrogeologici e sismici, che il ministero dell’Ambiente sta approntando, deve essere il segno della svolta.Questo Paese non può vivere sulle emergenze, non può intervenire solo a danno, spesso irreparabile, ormai avvenuto. Modalità d’intervento che si rassegnano a fare la conta dei morti e delle distruzioni. Solo la cultura della tutela – che è insieme coscienza del valore del proprio territorio, della sua storia e della sua arte e desiderio di trasmettere ai nostri figli questa straordinaria bellezza che ancora ci circonda – può portare speranza di vita e impegnare le tecnologie e le risorse disponibili nell’ambito della prevenzione.È una politica vincente anche da un punto di vista economico se si pensa che solo la mancata prevenzione del rischio idrogeologico ci costa ogni anno 3,5 miliardi. Un calcolo complessivo dei danni provocati da terremoti, frane e alluvioni, dal 1944 al 2012, raggiunge i 242,5 miliardi di euro. La politica della toppa e della rassegnazione allo status quo non può che creare ulteriori strappi e povertà. Mentre la tutela e la valorizzazione, come mostrano le grandi e piccole città d’arte e i territori più tutelati, creano ricchezza diffusa.Dobbiamo imparare ad avere memoria: la distruzione di Catania dopo il terremoto del 1693 portò a costruire edifici con caratteristiche antisimiche, ma a distanza di pochi decenni questi accorgimenti erano già stati dimenticati. Valorizziamo, dunque, le conoscenze e le tecnologie che possono aiutarci a preservare la vita, il territorio e i suoi tesori. Un esempio tra tanti: la tecnologia, made in Italy, del sollevamento degli edifici, grazie ad 'ammortizzatori' e all’inserimento di isolatori alla base, utilizzata sia per palazzi del centro dell’Aquila sia per edifici storici della Laguna veneta.Ma la tecnologia, anche se già a disposizione e infinitamente più economica di qualsiasi ricostruzione post-sisma o frana, non basta. Sono necessari uomini e donne che sappiano aprire occhi pieni di speranza sulla bellezza che il Creatore e i popoli che l’Italia hanno abitato nei millenni ci hanno saputo donare. Uomini e donne che sappiano contemplare la bellezza come un orizzonte da abitare, tutelare e offrire alle generazioni a venire.
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