sabato 30 aprile 2016
Primo maggio: il lavoro, i suoi non-luoghi, il valore
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Una grande utopia del nostro capitalismo è la costruzione di una società dove non ci sia più bisogno del lavoro umano. C’è sempre stata un’anima dell’economia che ha sognato imprese e mercati "perfetti" al punto da poter fare a meno degli esseri umani. Gestire e controllare uomini e donne è molto più difficile che gestire docili macchine e ubbidienti algoritmi. Le persone concrete attraversano crisi, protestano, entrano in conflitto tra di loro, fanno sempre cose diverse da quelle che dovrebbero fare secondo i mansionari, spesso le fanno migliori. Perché siamo semplicemente liberi, esseri spirituali, e quindi sempre eccedenti rispetto ai compiti, ai contratti, agli incentivi. Il mercato veramente perfetto sarebbe allora quel sistema di tecniche, controlli, incentivi, strumenti, finalmente capace di garantire la massima efficienza e la massima produzione di ricchezza, riducendo fino ad eliminare la presenza umana dalle nuove città della nuova economia. Oggi, grazie ai traguardi straordinari raggiunti dall’automazione e dalla digitalizzazione, quell’antica utopia rischia seriamente di avverarsi. Se, infatti, guardiamo bene al clima che si respira dentro le grandi imprese, ci possiamo accorgere che l’obiettivo che si cela dietro la retorica di una certa cultura manageriale (che afferma esattamente l’opposto) è la standardizzazione, la prevedibilità e la formattazione dei comportamenti dei lavoratori, per depotenziarne quella carica di libertà che non può rientrare nella razionalità della tecnica. Si vorrebbero prestazioni lavorative senza i lavoratori, lavoro senza persone, estraendo dall’azione umana solo la sua componente perfettamente orientata agli obiettivi della proprietà. Ridotta alla sua essenza più nuda, è questa la natura della sempre più sofisticata ideologia dell’incentivo, che è la nuova religione del capitalismo post-moderno. Ma quando il lavoro viene ridotto a tecnica e prestazione, quando le organizzazioni diventano così razionali da "costruire" lavoratori che imitano la logica delle macchine, non resta più nulla di quell’attività antropologica primaria che è il lavoro umano, e del suo mistero. E se gli uomini e le donne perdono la loro capacità di lavorare perdono molto, troppo, quasi tutto della loro dignità, del loro essere stati fatti "poco meno di Elohim" (Salmo 8). La realizzazione dell’utopia del lavoro-senza-umani sarebbe allora soltanto l’attualizzazione della perfetta disumanizzazione della vita in comune. E per continuare a vivere, saremmo costretti ad emigrare in massa verso altri terre e altri pianeti dove sia ancora possibile lavorare veramente. Questa festa del lavoro può essere allora un momento propizio per ricordarci e ricordare che cosa sono il lavoro e i lavoratori. Dovremmo ricordarci, ad esempio, che se vogliamo conoscere veramente una persona dobbiamo guardarla mentre lavora. È lì che si rivela con tutta la sua umanità, è lì che si trovano la sua ambivalenza, i suoi limiti ma anche, e soprattutto, la sua capacità di dono e di eccedenza. Possiamo far festa insieme, uscire a cena, giocare a calcetto con gli amici, ma niente come il lavoro è una finestra antropologica e spirituale che ci svela chi ci sta vicino. Non è raro che pensavamo di conoscere un amico, un genitore, un figlio, finché un giorno ci capita di vederlo lavorare e improvvisamente scopriamo di non averlo mai conosciuto veramente, perché ci era rimasta velata una dimensione essenziale della sua persona, che ci si è aperta solo mentre lo guardavamo lavorare: mentre ripara un’auto, pulisce un bagno, fa una lezione, prepara un pranzo. Siamo tutti noi presenti nella mano che stringe la vite, nella penna che scrive, nello straccio che asciuga: è qui che incontriamo l’umanità nostra e quella degli altri. E, quasi sempre, nasce una nuova stima e una nuova gratitudine per il lavoro che vediamo e scopriamo come dono. Poche realtà danno gioia più del lavoro ben fatto, e quindi pochissime cose (se ce ne sono) danno più infelicità di lavorare male, anche quando non riusciamo a fare diversamente. Siamo diventati grandi guardando i grandi lavorare. Ho "conosciuto" mio nonno Domenico quando, bambino, l’ho visto nella sua officina costruire con le sue mani un banchetto, per me. Solo lì ho capito cosa fossero veramente le sue grandi mani callose e sapienti, e a partire da lì l’ho conosciuto. Di lui mi resta oggi solo quel banchetto, custodito nel mio studio accanto ai libri, e in quei legni non manca nulla della sua anima, perché un giorno l’ho vista incarnarsi in quell’oggetto, costruito come dono, per me. Una grave forma di povertà dei nostri bambini è non poter guardare più il lavoro degli adulti, perché troppi lavori stanno diventando astratti, invisibili, confinati in non-luoghi lontani e inaccessibili, soprattutto ai bambini e ai giovani. Quale lavoro potranno creare domani se oggi vivono immersi in mille spettacoli, ma privati dello spettacolo del lavorare, il più grande della terra? Un dono grande per i figli è dare loro la possibilità di vedere il lavoro vero e concreto, e da lì iniziare a vedere il mondo. Ci sono poche esperienze umane e spirituali più vere di passare per le città e guardare la gente mentre lavora. Non c’è allora modo migliore di festeggiare il lavoro che tornare a guardarlo, vederlo, riconoscerlo, e poi ritornare riconoscenti. È la nostra stima, personale e collettiva, per il lavoro e per i lavoratori la prima e vera riforma di cui ha bisogno il mondo del lavoro. E magari, in questo giorno di non-lavoro, torniamo a leggere qualche pagina sul lavoro dei classici della tradizione civile italiana: «Non v'è lavoro, non v'è capitale - ha scritto Carlo Cattaneo - che non cominci con un atto d'intelligenza. Prima d'ogni lavoro, prima d'ogni capitale è l'intelligenza che comincia l'opera, e imprime in essa per la prima volta il carattere di ricchezza»..

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