Il Drago Vaia e l'orsa Amarena: quando l'uomo spegne la favola
sabato 2 settembre 2023

Il grande incendio sull’Alpe Cimbra era divampato alle 21.40 e le fiamme si erano viste fin giù nella valle trentina, dove migliaia di sguardi impotenti intuivano l’orrore: il Drago Vaia stava bruciando. Alle 22 era già tutto finito, inutile la corsa dei vigili del fuoco: il Drago si contorceva nell’ultimo spasimo lasciando un cumulo di cenere fumante.

Moriva così il 22 agosto, per mano disumana, la grande scultura creata dall’artista Marco Martalar con migliaia dei legni abbattuti dalla tempesta Vaia nel 2018.

Simbolo di rinascita, il Drago era diventato meta per mezzo milione di turisti, ma soprattutto era un figlio per gli abitanti della zona, “forse perché era in legno, era vivo”, ha commentato lo scultore, “oggi diversi anziani sono venuti fin quassù e piangevano, mi sono commosso. Chi può aver fatto una cosa del genere? Che senso ha?”.

Dopo il Drago, l’orsa. Dieci giorni dopo, ai margini del Parco nazionale d’Abruzzo, simbolo di convivenza tra uomo e natura, Amarena è stata uccisa a colpi di fucile. Senza un perché: non aveva mai dato problemi, semmai qualche pollaio razziato, ma per i residenti era una di loro, filmata spesso mentre passava con i due cuccioli al seguito nelle zone abitate. “È stato un atto impulsivo, istintivo”, si difende oggi chi ha sparato, mentre monta l’ondata di indignazione e di pena per quei due cuccioli fuggiti in cima a un albero per il terrore, poi spariti e ora individuati dalle guardie forestali.

Il drago di Vaia prima della distruzione di fine agosto 2023

Il drago di Vaia prima della distruzione di fine agosto 2023 - Ansa

Due episodi di questo lembo di estate, apparentemente lontani – inanimato il Drago, viva e madre l’orsa – eppure così vicini, nati dalla stessa incapacità di sentirci parte di un unico cuore pulsante che è la nostra casa comune, la Terra. Impossibile, nei giorni del rogo di Vaia, non ripensare al celebre racconto di Dino Buzzati intitolato proprio “L’uccisione del drago”, una delle tante lucide profezie del più attuale e immaginifico scrittore del ‘900. Pagine in cui troviamo tutto, la tracotanza degli uomini partiti per la battuta di caccia contro il misterioso drago, l’innocenza del mostro che si lascia martirizzare senza lanciare un grido né ripararsi nella caverna (solo nel finale lo struggente motivo: non rivelare l’esistenza dei due cuccioli), l’orrore degli stessi cacciatori di fronte al sacrilegio compiuto, persino quel filo di fumo che continua a esalare dal drago già morto (nel racconto è un fumo mortifero, estremo atto di giustizia verso il crudele conte Gerol, che non ha risparmiato nemmeno i cuccioli).

“Che gusto c’è a tormentarla così anche se è un drago?”, sbotta perfino l’amico del conte, mentre il mostro col ventre squarciato da una mina resiste in silenzio per non svelare il suo segreto di madre. Solo “la testa riprese ad agitarsi penosamente a destra e a sinistra, pareva che dicesse di no, che non era giusto…”, scrive Buzzati (ed è il 1939!). Solo quando le sue creature – “due piccoli rettili informi, lunghi non più di mezzo metro, che ripetevano in miniatura l’immagine del drago morente” – vengono “gioiosamente” uccisi dal conte con la clava di ferro, il drago “allungò con infinito stento la testa, prese a leccare dolcemente i due mostriciattoli morti, forse allo scopo di richiamarli in vita”, poi “levò il collo verticalmente al cielo, come non aveva ancora fatto e dalla gola uscì, prima lentissimo, quindi con progressiva potenza un urlo indicibile, voce mai udita nel mondo, né animalesca né umana… ”. Invocava un aiuto il drago, scrive Buzzati, ma a chi? “L’urlo riempiva l’intero mondo. Sembrava impossibile che nessuno gli rispondesse”.

Il drago, l’orsa, i due cuccioli. Fantasia e realtà che si fondono e confondono, come spesso in Buzzati. Da una parte l’innocenza, dall’altra il misfatto insensato: la mano del piromane che dà fuoco a un capolavoro artistico e morale come il Drago Vaia, il fucile che spara all’orsa amata da tutti (l’inchiesta in corso appurerà dinamiche e motivazioni). E sullo sfondo l’eco che rimbalza tra le due montagne, trentina e abruzzese, con quella stessa domanda dell’artista Martalar: chi può aver voluto fare una cosa del genere? perché? che senso ha?

Forse anche in questo ha ragione Buzzati, incapaci di sognare, ci siamo costruiti un mondo razionale in cui i mostri, i draghi, gli orsi (come non ricordare la sua favola per adulti-bambini “La famosa invasione degli orsi in Sicilia”?), i babau e tutti gli “irregolari” sono messi al bando: siamo uomini seri, noi del Duemila, mica possiamo credere a queste fole…

Vaia, con i suoi sei metri per sette, la cresta paurosa e la lunga coda inalberata al cielo, incarnava il diritto al sogno e alla poesia, rivendicava il desiderio di antiche paure e leggende rimaste scritte nel nostro Dna, per ciò è stato ucciso. “Era stato l’uomo a cancellare quella residua macchia del mondo, l’uomo astuto e potente che dovunque stabilisce sapienti leggi per l’ordine, l’uomo incensurabile che si affatica per il progresso e non può ammettere in alcun modo la sopravvivenza dei draghi, sia pure nelle sperdute montagne”, risponde Buzzati alla domanda di Martalar e di tutti noi.

La fine del drago e dell’orsa ci insegna che i mostri spesso non sono tali, mentre per noi diventare mostri è proprio un attimo, basta un cerino, un colpo in canna, la mancanza di cuore. “Orribile a prima vista. Ma a ben osservarlo con occhi spassionati, si notava, per la piega benigna della bocca e il luccichìo quasi affettuoso delle pupille, una espressione tutt’altro che malvagia”, ammonisce Buzzati nel racconto “Il Babau”. “Era molto più delicato e tenero di quanto si credesse. Era fatto di quell'impalpabile sostanza che volgarmente si chiama favola o illusione”. Proprio come Vaia e Amarena.

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