venerdì 18 settembre 2015
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Rendere fertile una persona sterile: lo scienziato che dovesse riuscirci meriterebbe il Nobel, e il metodo per ottenere un risultato tanto clamoroso sarebbe fonte per l’autore di lauti e meritati guadagni. Ma a giudicare da quel che propongono le cronache non c’è da essere granché ottimisti. Perché alla soluzione di piaghe oggi dilaganti come quella dell’impossibilità di generare la scienza sembra privilegiare soluzioni di facciata, annunciate come mirabolanti e definitive ma che lasciano il problema al suo posto, sostituendo allo studio del disturbo, alla sua prevenzione e alla cura del paziente tecniche e prodotti per andare dritti al risultato: il "figlio in braccio", costi quel che costi. È il caso della fecondazione in provetta, che non risolve l’infertilità ma separa la procreazione dal corpo dei genitori costringendoli a tornare in laboratorio se vogliono riprovarci. Una specie di dipendenza, per di più costellata di fallimenti (in Italia poco più di un ciclo su dieci si conclude con un successo, un dato miseramente basso per una procedura clinica) e di proporzionali versamenti bancari. La conferma di questa scelta di campo – servizi e strumenti da vendere anziché cure per il disturbo – arriva con la notizia giunta ieri da Lione dove la Kallistem, azienda biotech nata dal Cnr francese, ha annunciato di aver ricavato spermatozoi da tessuti di testicoli di un uomo sterile, spiegando di aver brevettato la tecnica per ottenere cellule di straordinaria complessità come quelle riproduttive maschili, senza però esibire le prove alla comunità scientifica. E qui c’è già la prima, rilevante anomalia. È infatti regola ferrea della scienza che le scoperte vengano validate e certificate attraverso una severissima verifica indipendente e incrociata tra i massimi esperti mondiali del settore, e che solo una volta superato questo ostacolo doverosamente impervio i risultati si possano pubblicare su riviste specializzate di riconosciuta affidabilità. Ebbene: la Kallistem a questa procedura ha preferito una semplice conferenza stampa per spiegare, in buona sostanza, che l’ambiziosa cima scalata da vari laboratori nel mondo – la fertilità restituita a pazienti sterili, appunto – loro l’avrebbero già espugnata. Una specie di corsa all’oro che ha sul piatto la vita umana, alla quale in tutta questa frenesia per arrivare primi si guarda con lo stesso interesse riservato alle cavie. Leggendo quello che è affiorato da Lione si coglie infatti che nella procedura per indurre alcune cellule a diventare capaci di originare una nuova vita – e occorrono 72 giorni per riuscirci – si è avanzato per manipolazioni genetiche e morfologiche tali da rendere impossibile sapere cosa sia esattamente quello che viene definito "spermatozoo in vitro": verosimilmente, qualcosa che si ritiene assimilabile a un gamete maschile ma sul quale gravano pesanti interrogativi. C’è un solo modo per dissiparli: fecondare in provetta col ritrovato della Kallistem – qualunque cosa sia – un ovocita femminile, e stare a vedere cosa succede. Con i topolini o le scimmie è normale far così – tra le proteste degli animalisti, peraltro –, ma con la vita di un uomo tra le mani chi se la sente di farlo? E chi può responsabilmente autorizzare i creatori di queste cellule, delle quali sappiamo solo che da ieri sono marchiate col copyright, a proseguire con il loro esperimento da dottor Stranamore? E se davvero nascesse un bambino di quali alterazioni sarebbe portatore, trasmissibili ai suoi figli, e quando si manifesterebbero? E se quel che nasce fosse un tipo di vita inaccettabile per le attese dei suoi creatori la si cestinerebbe come un qualunque esperimento malriuscito? Domande che non sembrano interessare gli scienziati francesi, già pronti con la tabella di marcia in mano: due anni per i "trials clinici" – ovvero realizzare la creatura sotto vetro, per capire se il prodotto funziona –, cinque per «i primi centri che mettono a disposizione la tecnica». Non resta che augurarsi che in Francia e altrove chi deve vigilare sul rispetto più elementare della vita umana, e prima ancora della buona ricerca scientifica, fermi le macchine e gli interessi che le muovono. Di casi Stamina ce n’è bastato uno.
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