Un'amara storia in tre messaggi invita a mettersi nei panni e nella pelle dell'altro
sabato 28 luglio 2018

Caro direttore,
poco fa, proprio mentre leggevo "Avvenire", mi sono arrivati questi messaggi da parte di mia figlia che lavora in un altro Paese europeo. Mi hanno colpita profondamente e ho sentito il bisogno di condividerli con lei e con gli altri lettori del "nostro" giornale con una domanda che non può lasciarci in pace: «Chi è l’altro?».
[18:47] «Oggi a un workshop sulla migrazione ho incontrato un ricercatore ghanese che avevo incontrato già in dicembre. Stavolta, chiacchierando, siamo chiaramente finiti a parlare del neoministro italiano Salvini & company. All’improvviso lui si è agitato tantissimo e gli sono venute le lacrime agli occhi e mi ha detto che anche se abita in... (un paese europeo) da ormai cinque anni, da tre mesi a questa parte gli succede spesso che la polizia lo ferma per strada e lo trattiene a lungo per controllarlo. E che si moltiplicano le esperienze così, per cui ora vorrebbe soltanto tornare a vivere in Africa, e spera di trovare lavoro lì per riuscire a farlo».
[18:50] «Non avevo pensato prima a quanto la situazione attuale possa essere stressante per chi solo per il colore della sua pelle all’improvviso si sente preso di mira. Vicino a noi c’era un professore, anche lui di origine ghanese, che quando il suo connazionale ha iniziato a raccontare le brutte esperienze fatte, anzi subite, prima ha raccontato a sua volta alcuni episodi simili successi a lui, poi ha cominciato ad agitarsi e infine è uscito dalla stanza».
[18:53] Mi è anche tornato in mente come mi sentivo quando qualcuno mi diceva cose razziste perché ero bianca durante la mia permanenza in Senegal. Oggi come allora io ho chiaro che il mio caso è ben diverso, perché avevo e ho uno Stato importante alle spalle e quindi ho oggi come avevo allora la ragionevole certezza che in realtà non può essermi fatto niente di ingiusto. Nel loro caso però non è così, entrambi si rendono anzi conto che sui giornali del Paese in cui vivono si discute sulla necessità di fare campi di detenzione per la gente del loro Paese e continente. Insomma, oggi ho capito che io al posto loro andrei in panico».
Non voglio commentare, direttore, sarebbero solo luoghi comuni. E per lo stesso motivo vorrei che il mio nome non comparisse. Mi sento un granello di sabbia di un’umanità che vorrei senza confini.
Lettera firmata

La capisco, cara signora. E subito le rispondo: l’altro siamo anche noi. Ma soprattutto voglio dirle tutta la mia gratitudine per aver deciso di condividere il racconto in tre messaggi che le ha fatto sua figlia. Infatti, col passare degli anni, ho imparato che "mettersi nei panni dell’altro" è un esercizio utile e spesso risolutivo. Lo è quando si ragiona su questioni delicate e che possono avere diversi approcci. Lo è quando ci si misura con vicende complesse e per le quali è illusorio immaginare risposte semplici. Lo è quando si finisce per prendere i problemi dell’umanità e trasformarli in astrattezze sino al punto di disumanizzare le persone e noi stessi, magari arrivando a impugnare un’arma per usarla "contro" come se fosse un gioco, e come è stato fatto troppe volte negli ultimi quaranta giorni contro i "diversi", colpendo persone inermi e persino bimbi di poco più di un anno... Questi rischi sono tutti figli di uno stesso atteggiamento della mente e del cuore: non riuscire più a "vedere" la donna o l’uomo o il bambino o la famiglia che sta davanti a te, ma voler vedere solo i connotati di gruppo e considerare quella vita umana un pezzetto di una statistica e l’accessorio di una questione politica. E davanti a essi ci può aiutare davvero tanto un esercizio così diretto e compromettente: "mettersi nei panni dell’altro". Come mi sentirei, io, al posto di un uomo o di una donna con la pelle scura o comunque di un colore differente? Come reagirei, io, a sguardi carichi di sospetto, o magari di disprezzo e persino di odio? E cosa penserei e come vivrei se cominciassi, io, a sentimi dire che il mio lavoro, la mia abilità, la mia cultura poiché li sto esercitando in un Paese diverso da quello in cui sono nato sono dei "furti": rubano spazio e identità e soldi ai nativi del luogo dove mi trovo?
Sì, è davvero importante sapersi "mettere nei panni dell’altro". Ed è ciò che portano a fare i messaggi in cui sua figlia ci parla di due uomini dalla pelle nera (un ricercatore e un docente) che risiedono regolarmente (le regole sono importanti, sono il primo a dirlo, per questo non possono mai diventare l’alibi dell’odio) in Europa. Due persone dalla pelle nera che, in questo nostro tempo di pensieri cattivi e di ritornanti parole e atti xenofobi e persino razzisti, stanno sperimentando un doloroso e prima mai provato senso di estraneità, sino a sentirsi pesantemente a disagio, bersagli di discriminazioni sottile o grevi e di un rifiuto sia implicito sia esplicito. È inutile negarlo: nella scatola-categoria dei "migranti" e dei "sospettati" si finisce più facilmente se il colore della pelle non è quello "giusto". Sua figlia, gentile e cara amica, ha sperimentato che altrove può pesare, pesa, anche la pelle bianca, ma in casa nostra, nella civilissima Europa, sta tornando a pesare il fatto di esser uomo o donna o bambino dalla pelle nera o anche solo ambrata. E questo soprattutto quando è pelle di esseri umani poveri o, comunque, non abbastanza ricchi e famosi da poter dire con tagliente ironia: "Sì, c’è stato un tempo in cui anche io sono stato un negro". Se sei musulmano e dalla pelle scura, ma ti chiamano "sceicco" e ti compri un palazzo a Milano o affitti a peso d’oro una villa a Forte dei Marmi o arrivi col tuo mega-yacht a Venezia nessuno alzerà un sopracciglio e ti rinfaccerà la tua origine... Qualche sera fa una signora che si è inserita con fare alterato in un dialogo tra me e alcuni amici in un luogo pubblico mi ha gridato in faccia: "Guardi, che quelli come lei non c’incantano più. Sappiamo cosa fare e chi votare perché sappiamo che i negri sono ladri, stupratori e assassini...". Avevo appena ricordato ai miei amici che non esistono "razze" di malviventi, ma persone malvagie e persone giuste di ogni etnia, pelle e cultura... La cosa mi ha ferito, e mi ha fatto definitivamente capire che nel corpo della nostra società è stata eccitata un’infezione seria. Ma posso garantirle che non sono rimasto senza parole, e neanche senza speranza. Perché nessuno di noi può rassegnarsi a un simile impazzimento.
Non possiamo rassegnarci alla scatola-categoria dei "migranti" e dei "sospettati" da cui si sta pescando a piene mani per condurre il gioco duro e amaro del "noi e loro", nel quale "loro" non sono ciò che sono, ma sono solo "gli altri". Altri nei cui panni è inconcepibile mettersi. Una aspra regola di esclusione e di espulsione che purtroppo politici senza responsabilità, maestri senza morale e predicatori senza Dio si stanno impegnando a dissotterrare dal cimitero degli orrori del passato. Una storia feroce che non può e non deve ripetersi, anche se a tratti sembra precipitare verso i peggiori incubi del primo Novecento.
Per questo "mettersi nei panni dell’altro" o, più coraggiosamente, "nella pelle dell’altro" è utile e addirittura essenziale. È un’attitudine che fa bene a noi, alla società di cui siamo parte, al mondo ancora senza pace che abitiamo e siamo destinati a percorrere. Ma sono certo che per lei, per me e per tanti altri è anche qualcosa di più. Perché "mettersi nei panni e nella pelle dell’altro", come ha fatto sua figlia, è una della possibili traduzioni pratiche del comandamento «più grande», quello nel quale Gesù pone uno accanto all’altro l’amore con tutto il cuore per Dio e l’amore per il prossimo. Oggi più che mai, a ognuno di noi spetta il compito di non dimenticare e di non far dimenticare che la fraternità è fondamentale insegnamento cristiano ed è base di irrinunciabile civiltà.

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