mercoledì 16 dicembre 2009
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In un celebratissimo dipinto del pittore americano Norman Rockwell dal titolo Freedom of Speech (Libertà di parola) - sull’esegesi del quale si esercitano fin dalle scuole primarie i giovanissimi studenti degli Stati Uniti - un uomo dall’aspetto palesemente umile si alza a dire la propria opinione nel mezzo di un’assemblea. Da una delle tasche occhieggia un quotidiano, al suo fianco lo ascoltano attenti altri individui di più fortunata condizione sociale. Questa allegoria è una delle pietre miliari della libertà di espressione così come il mondo anglosassone l’ha concepita fin dall’epoca di Oliver Cromwell e che si protrae con i suoi pregi, i suoi rischi e le sue miserie fino ai giorni nostri.I pregi della libertà di espressione sono condivisi da tutte le democrazie moderne e non occorre qui rammentare i benefici che la collettività ne ricava: ovunque vi sia uno Stato di diritto si contempla senza remore la salvaguardia e la dignità di ogni forma di espressione, sia essa scritta, parlata o in altro modo declinata. Il che non ha impedito a intellettuali del calibro di Walter Lippman (forse il più celebre dei giornalisti americani del secolo scorso) di indagare a fondo sui limiti e le tensioni che intercorrono fra democrazia e libertà di espressione.Il tema, come si può intuire, ritorna di attualità bruciante in questi giorni, dopo che la Rete (usiamo la versione italiana di World Wide Web ad indicare il familiare www.) ha mostrato di rigurgitare di ogni sorta di slogan, di invettive, di gruppi di contatto, di forum improvvisati (qualcuno anche camuffato, qualcun altro che ha addirittura cambiato denominazione all’insaputa dei propri aderenti) a seguito del vergognoso gesto compiuto domenica scorsa in Piazza del Duomo a Milano nei confronti del presidente del Consiglio.La domanda, l’unica domanda che in queste ore rimbalza dalla scrivania del ministro dell’Interno alla coscienza degli uomini di buona volontà è una sola: fino a che punto si può consentire in nome della libertà di espressione che sulla Rete si inneggi alla morte, alla tortura, all’impiccagione di questo o di quell’avversario politico? Fino a che punto è lecito che un sito o un social network come Facebook possa ospitare collettivi il cui unico collante è l’odio: razziale, politico, financo personale?Il tema è quanto mai spinoso e lo testimonia il fatto che le grandi democrazie che ci hanno preceduto di qualche anno nell’uso capillare della Rete, dagli Stati Uniti all’Inghilterra, alla Francia, alla Germania non hanno trovato una riposta né una soluzione univoca, se non quella di interventi casuali e mirati nei confronti di siti negazionisti o neonazisti o inneggianti all’odio razziale. Il che rappresenta senza dubbio una forma di censura, ovvero una rinuncia deliberata al principio sacro della libertà di espressione. Una censura in quei casi giustificabile, ma che – se estesa e incontrollata – ci porta fatalmente a quelle nazioni – come Cuba, la Cina, la Corea del Nord, l’Iran, la Libia, la Siria – che imbrigliano e inibiscono a tal punto la navigazione su Internet da renderla quasi impossibile. Il che non deve farci dimenticare che senza la Rete sapremmo ben poco dei disordini postelettorali a Teheran, della penuria alimentare a Pyongyang, dell’instabilità che insidia a Damasco, di ciò che avviene in Tibet.Eppure ogni democrazia – non occorre scomodare Thomas Hobbes per ricordarlo – si deve obbligatoriamente dare dei limiti e dei confini per poter sopravvivere. Uno dei quali, per la Rete e i suoi eccessi, potrebbe e forse dovrebbe essere il codice penale, così come accade per la stampa. Lo stesso crinale che separa in buona sostanza la democrazia dall’anarchia, ma la cui delicatezza è somma e il cui maneggio abbisogna di grande cura e altrettanta saggezza, giuridica e politica. Altrimenti è l’arbitrio.
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