sabato 2 marzo 2013
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 La sveglia è suonata a meno di cento ore dalla chiusura dei seggi elettora­li. Le cifre sull’economia italiana e i conti pubblici, diffuse ieri dall’Istat, piom­bano sulla nuova classe politica fresca di in­vestitura popolare come una potente doc­cia di realismo. Attorno a questi numeri, per la verità, è già scattata la consueta cac­cia al responsabile, si sono già aperte le i­scrizioni al più vieto 'talent show' all’ita­liana, quello in cui il concorrente vince quando riesce a strumentalizzare meglio i dati, trasformandoli in armi per colpire gli avversari.
Ma gli ultimi drammatici consuntivi su di­soccupati e precari (con il dettaglio scon­volgente di un Sud dove ormai più di un giovane su due non ha lavoro), la certifi­cazione di una spremitura fiscale giunta a livelli intollerabili, l’ennesima pesante ca­duta del prodotto interno lordo, sono tut­ti elementi di un quadro già largamente delineato e dunque in buona misura pre­vedibile: certamente dall’estate-autunno del 2011, ma in realtà anche prima di allo­ra. Perché le conseguenze delle drastiche manovre di risanamento messe in atto a partire dal giugno-luglio di due anni fa, im­poste da un’emergenza finanziaria matu­rata in decenni di inerzie e di sventatezze e divenuta stringente per la crisi interna­zionale, non potevano essere molto diver­se da quelle che ci troviamo ora a valutare.
Sono un po’ come gli effetti collaterali di un farmaco che aggredisce con successo la malattia mortale e ne arresta il decorso fu­nesto, infliggendo però all’organismo al­tre sofferenze, che ora vanno affrontate con pari decisione. Ma anche – ed è questo il punto – con una dose supplementare di serietà e di onestà intellettuale. Proprio quelle virtù venute a mancare di nuovo ne­gli ultimi mesi, innescando una delle mic­ce, probabilmente quella decisiva, che han­no fatto deflagrare il risultato elettorale di domenica e lunedì scorsi.
Ecco perché adesso sarebbe altamente ir­responsabile continuare nel tendenzioso rimpallo delle colpe o, peggio, cominciare ad accumulare le munizioni per una nuo­va battaglia elettorale. Non sarà un caso se, pochissime ore dopo la diffusione delle ci­fre Istat, dal mondo delle agenzie di rating arrivano nuovi moniti sull’ulteriore pres­sione al ribasso connessa alla nostra in­stabilità politica. O se qualche esperto di a­rea tedesca azzardi addirittura la prospet­tiva per l’Italia, nel caso non riesca a con­vincere la maggioranza dei suoi cittadini a restare nelle regole dell’euro, di 'tornare alla sua vecchia moneta'.
La verità è che ci troviamo oggi al culmine di un doloroso percorso di duro risana­mento che, tutti insieme, più o meno di buon grado, abbiamo accettato di sobbar­carci, nella speranza che lo sforzo colletti­vo sarebbe stato accompagnato da una riforma minima delle regole democratiche e istituzionali (in primis quelle elettorali), tale da mettere il Paese in condizione di ri­lanciarsi. Tutto ciò non è avvenuto e gli e­lettori ne hanno tratto a modo loro le con­seguenze. Ma come in un autolesionistico gioco del­l’oca, rischiamo ora di tornare al punto di partenza, al prezzo di 'sacrificare i sacrifi­ci', nell’illusione di una immediata rivin­cita o di un’ulteriore decisiva spallata.
È chiaro che il quadro parlamentare uscito dalle urne non autorizza previsioni otti­mistiche sulla durata della legislatura. Ma un conto è rassegnarsi fin d’ora a un 're­make' senza sbocchi della rappresenta­zione suicida andata in scena nei primi due mesi dell’anno. Un altro è ricercare una mi­nima unità d’intenti, tra vecchi e nuovi pro­tagonisti del palcoscenico politico, che consenta un tratto di strada legislativo pro­ficuo. È semplicemente impensabile tornare da­vanti ai cittadini a mani vuote, senza una riforma elettorale che restituisca loro il di­ritto di scelta effettivo, senza intaccare so­stanzialmente lo zoccolo duro della spesa politica, senza prosciugare almeno in par­te le fonti dei finanziamenti illeciti e dello scambio immorale tra interesse pubblico e privato. In poche parole, senza dimo­strare di aver imparato la lezione.
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