sabato 4 luglio 2015
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C’era una volta un uomo giusto di nome Giobbe, con molti beni, figlie e figli, benedetto da Dio e dagli uomini. Un giorno una terribile sciagura si abbatté su di lui e sulla sua famiglia, e quell’uomo accettò con pazienza il suo destino sventurato: «Nudo venni al mondo, nudo lo lascerò». Amici e parenti, saputa della sua disgrazia e conoscendo la sua giustizia, vennero da lui per celebrare il lutto, consolarlo e aiutarlo. Alla fine però fu Dio stesso a intervenire in suo favore, ridonandogli il doppio di quanto aveva perso, perché Giobbe si era dimostrato fedele e retto durante la prova. Era questa, o qualcosa di simile, la primitiva leggenda di Giobbe, nota in antico nel Vicino Oriente e nella terra d’Israele. L’autore del Libro di Giobbe partì da questa storia. Ne conservò i materiali e con essi scrisse il Prologo (Capp. 1-2) e l’Epilogo: «Il Signore ristabilì la sorte di Giobbe... Raddoppiò quanto Giobbe aveva posseduto. (…) Così possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. Ebbe anche sette figli e tre figlie. Alla prima mise nome Colomba, alla seconda Cassia e alla terza Argentea. In tutta la terra non si trovarono donne così belle come le figlie di Giobbe» (42,10-15).
Quando però l’autore si mise a comporre il suo poema, quell’antica leggenda divenne qualcosa di molto diverso. Nacquero i meravigliosi canti di Giobbe, i dialoghi con gli amici, e forse le parole di Elihu e quelle di Dio. E si ritrovò con un’opera che conservava molto poco dell’originaria e pur affascinante leggenda. Giobbe si mostra tutt’altro che paziente, aveva protestato e gridato contro Dio e la vita. Gli amici da consolatori diventano aguzzini e avvocati di un Dio banale. E lo stesso Dio quando entra finalmente in scena delude, non arriva per consolare Giobbe, né per rispondere alle sue domande. Quell’antica leggenda divenne il contenitore di una vera rivoluzione teologica e antropologica e di un autentico capolavoro letterario. Così quando arriviamo alla fine del libro, all’Epilogo, siamo stupiti nel leggere: «Dopo che il Signore ebbe rivolto queste parole a Giobbe, disse a Elifaz di Teman: "La mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe"». (42,7-8). Qui, Dio diventa giudice tra Giobbe e i suoi "amici", in un processo che Giobbe vince ma che non aveva mai chiesto né desiderato (lui aveva processato Elohim, non gli amici). E così Giobbe, prima rimproverato e zittito dal Dio onnipotente, ora diventa improvvisamente "il suo servo", l’unico che ha detto cose "rette". Nessun cenno alla malattia di Giobbe, alla sua ribellione, alla scommessa con il Satan.
Evidentemente ci troviamo di fronte a materiali provenienti da tradizioni diverse, ma dobbiamo tentare, anche questa ultima volta, un’interpretazione. Certo, anche qui potremmo risolvere facilmente il problema dicendo che l’Epilogo lo ha aggiunto un tardo redattore finale, magari lo stesso che ha aggiunto il Prologo. Sono, infatti, in molti a proporre questa soluzione. Ma non tutti. Alcuni pensano invece che sia stato lo stesso autore del grande poema di Giobbe a voler lasciare i materiali dell’antica leggenda, come quei costruttori delle prime chiese cristiane, che utilizzarono le pietre e le colonne, a volte anche i perimetri, dei precedenti templi romani e greci. E così, incastonati dentro la sua cattedrale, l’antico autore ci ha tramandato anche magnifiche colonne e meravigliosi capitelli. Ma quegli antichi materiali, insieme alla loro bellezza, lasciarono in eredità anche qualche vincolo architettonico e stilistico in più. Chi scrive partendo da altre storie ricevute in dono (e ogni scrittore lo fa, fossero solo i racconti e le poesie che lo hanno nutrito: ogni parola scritta è prima parola ricevuta), sa che se vuole che quel dono fruttifichi deve rispettarlo. Non può solo usarlo per la propria costruzione senza ubbidire allo "spirito" che quella storia gli ha donato inciso nel dono stesso. Sta anche qui quel continuo ed essenziale esercizio di verità e di gratuità cui è chiamato chi non a scopo di lucro, ma per servire il daimon che lo abita, e che in lui abita la terra. Tutte le storie, anche le più grandi, nascono sopra colonne erette da altri.
«Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant’anni e vide figli e nipoti per quattro generazioni. Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni» (42,16-17). È questo l’ultimo verso del Libro di Giobbe. Le storie hanno un profondo, quasi invincibile bisogno del lieto fine. La domanda di giustizia, il desiderio di vedere alla fine il bene trionfare e gli umili innalzati, sono troppo radicati e radicali in noi e nel mondo per poterci accontentare di drammi e di racconti che terminano con i "perché" del penultimo capitolo. Noi però sappiamo che i Giobbe della storia non muoiono come i patriarchi "vecchi e sazi di giorni". I Giobbe vivi muoiono troppo presto, a volte non diventano neanche adulti; non gli vengono restituiti beni e figli (anche perché nessun figlio può essere sostituito dal dono di un altro figlio), la salute è persa per sempre, le ferite non vengono sanate, i potenti hanno sempre ragione, Dio non risponde, la loro sventura non finisce mai, il loro grido non si placa. Ma, più radicalmente, i figli e i beni che la vita ci dona non sono per sempre, la buona salute prima o poi finisce, e se abbiamo il dono di guardare in faccia l’angelo della morte, quasi sempre spiriamo con un "perché", che se pronunciato insieme a un "amen" e magari a un "grazie" si ammansisce, ma non scompare.
Allora mentre leggiamo questo Epilogo, che ci è arrivato come il dono di un’antica perla, non dobbiamo dimenticare il canto di Giobbe e, anche grazie ad esso, il canto-grido dei tanti Giobbe che non conoscono né sarebbero aiutati da quell’ultimo capitolo – che ci riporta dentro la teologia retributiva degli "amici" di Giobbe. E poi non terminiamo il libro con la lettura del capitolo 42. Torniamo indietro alla preghiera alla terra («Terra il mio sangue non ricoprire, il mio grido non abbia mai fine»: 16,18), alla querela di Giobbe a Dio («Se c’è nelle altezze di Dio il mio testimone […] giudichi lui tra un uomo e Dio, come si giudica tra due pari»: 16,19-21), alle sue proteste disperate («Io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma tu non mi dai retta»: 30,23). Sono queste le parole con cui possiamo e dobbiamo pregare tutti, anche quelli che pregano solo per chiedere che il cielo non sia vuoto. Il Giobbe amico degli uomini, solidale con ogni creatura e con ogni vittima, è quello che si ferma un passo prima dell’Epilogo. È questa la strada di ogni vera solidarietà umana, quella che parte dalla sventura e finisce con la sventura, e che si sorprende, insieme allo sventurato, se e quando arriva il paradiso, in terra o in cielo. Il paradiso è sempre il capitolo donato, quello che nessun libro può scrivere per noi, neanche gli immensi libri della Bibbia, perché se fosse già scritto non saremmo ancora usciti dal libro ed entrati nel mistero della nostra vita, che è vita proprio perché i capitoli ultimi possono essere solo i penultimi.
Ma forse c’è un altro messaggio nascosto dentro questo Epilogo donato. Non siamo noi gli scrittori del nostro finale. Non siamo noi i creatori delle aurore e dei tramonti più belli della nostra vita, perché se fossero nostre creature non ci sorprenderebbero, non sarebbero meravigliosi come il primo innamoramento o come l’ultimo sguardo della nostra sposa. Come nei racconti più belli, dove la vera conclusione è quella non scritta e che ciascun lettore ha il diritto e il dovere di scrivere (i romanzi eterni sono quelli in-finiti). Anche noi veniamo al mondo dentro un orizzonte che ci accoglie e che modella il paesaggio che andremo ad abitare. Scriviamo il poema della nostra vita, ma il prologo e l’epilogo ci sono donati, e il capolavoro nasce quando siamo capaci di inscrivere il nostro canto all’interno di una sinfonia più antica e più grande. Possiamo e dobbiamo scrivere le molte ore della nostra giornata, ma la prima e l’ultima sono dono – e forse per questo sono le più vere. È stato difficile iniziare Giobbe, e ora è ancora più difficile lasciarlo. Si vorrebbe restare, tanto è stupendo il paesaggio che si contempla dalla cima dove ci ha condotti, tenendoci per mano nel cammino. Grazie antico autore senza nome. Grazie per tutto il tuo libro. Ma soprattutto grazie per Giobbe. Il commento della Genesi è stata un’avventura grande del cuore e dello spirito. L’Esodo la scoperta della forza della voce di YHWH sulla terra e di quella dei profeti, che non sono falsi-profeti se liberano gli schiavi e i poveri. Ma Giobbe è stata la scoperta più inattesa, il dono più grande che ho ricevuto da quando scrivo. Grazie a chi mi ha seguito - per tutto il cammino o per un tratto. Molti commenti che ho ricevuto sono entrati nella riflessione, molte parole sono diventate le mie parole. Di questi grandi testi si può parlare solo insieme, cantandoli in coro.
C’era una volta un uomo di nome Giobbe. Il Dio che Giobbe cercava, sperava, amava, però non è arrivato. Gli innocenti continuano a morire, i bambini a soffrire, il dolore dei poveri ad essere quello più grande che la terra conosca. Giobbe ci ha insegnato che se c’è un Dio della vita deve essere il Dio del non-ancora. E che quindi può venire in qualsiasi momento, quando meno ce lo aspettiamo, lasciandoci senza fiato. Vieni!
 
Dopo due domeniche di riposo, necessario dopo l’attraversamento del "continente Giobbe", il 26 luglio riprenderanno i nostri dialoghi, grazie al direttore Marco Tarquinio che continua a credere a questa insolita "pagina tre" della domenica di "Avvenire".
E grazie a Luigino Bruni, economista e scrittore, che continua a credere, come noi, che il duro e splendido tempo che ci tocca si possa capire, amare e salvare incontrando profondamente la Parola che ci ha pronunciati e che continua a dirsi e a dirci per amore. (mt)
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