Il cammino dritto dei giusti
sabato 7 gennaio 2023

Nobunaga, grande guerriero giapponese, decise di attaccare il nemico. Si fermò e disse: Butterò una moneta, se viene testa vinceremo, se viene croce perderemo. Siamo nelle mani del destino’. Venne testa, i suoi soldati vinsero la battaglia. ‘Nessuno può cambiare il destino’, disse uno scudiero. ‘No davvero’, rispose Nobunaga, mostrandogli una moneta che aveva testa su tutt’e due le facce.
Tratto da 101 Storie Zen
Adelphi

La Bibbia è molto esperta di uomini e donne prima di essere esperta, un poco, anche di Dio. Così sa che quelle che appaiono azioni libere e tutte dipendenti dal nostro libero arbitrio, sono condizionate e qualche volta determinate dalla nostra storia, dall’educazione, dalle ferite e dalle benedizioni della vita. Non usa la categoria di destino (cara ad altri umanesimi), perché ama presentarci un Dio che scrive la nostra storia insieme a noi mentre viviamo (non prima), e così può salvare la nostra vera libertà. Ma, in alcuni racconti decisivi, ci dice anche che siamo profondamente legati al nostro passato, sebbene la corda non sia tanto robusta da impedirci di spezzarla e così diventare più grandi del nostro destino. Sta qui la radice del valore morale delle nostre scelte, senza però che la verità di questa libertà neghi un’altra verità: che siamo un capitolo di un libro che si comprende se letto insieme a quanto lo precede (e a quanto lo segue). Perché l’umanesimo biblico si apre a chi non ha paura di abitarne i paradossi e le contraddizioni, e da lì imparare gli uomini e le donne, imparare Dio.


Il capitolo due del Libro di Ester si era chiuso con un complotto contro il re Assuero sventato da Mordecai: «I due eunuchi del re, capi delle guardie del corpo, si rattristarono perché Mordecai era stato promosso, e cercavano di uccidere il re Assuero. La cosa fu resa nota a Mordecai, ed egli la fece conoscere alla regina Ester; ella rivelò al re la notizia della congiura». (Ester 2,21-22). Il verso si conclude (v.23) con l’impiccagione di questi due uomini, che ho omesso per onorare Mohammad Mahdi Karami e Seyed Mohammad Hosseini, due giovani impiccati ieri nella stessa terra di Assuero.
Il re però non ricompensò la lealtà di Mordecai, e innalzò un altro al ruolo di primo ministro: Aman. Fa così la sua comparsa un altro co-protagonist\a che imprime subito una svolta narrativa: «Dopo questi avvenimenti, il re Assuero onorò grandemente Aman, figlio di Amadàta, l’agaghita. Lo elevò in dignità e, fra tutti i suoi amici, lo faceva sedere al primo posto. Tutti quelli che stavano al palazzo si prostravano davanti a lui, poiché il re aveva ordinato di fare così» (3,1-2). La presentazione di Aman è un elemento decisivo. Un po’ di storia è necessaria. È erede di Agag (“agaghita”), un personaggio noto al lettore biblico. Infatti, nel Primo Libro di Samuele, Agag è il capo degli amalekiti, i discendenti di quell’Amalèk che si oppose a Mosè che fuggiva dall’Egitto («Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm»: Es 17,8). Il nome di Agag è profondamente legato alla triste storia di Saul, il primo re d’Israele. Saul, infatti, ricevette dal profeta Samuele un ordine di Dio che a noi oggi suona oscuro: «Ho considerato ciò che ha fatto Amalèk a Israele, come gli si oppose per la via, quando usciva dall'Egitto. Va', dunque, e colpisci Amalèk, e vota allo sterminio [herem] quanto gli appartiene; non risparmiarlo, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini» (1 Sam 15,2-3). Saul disobbedì al profeta perché lasciò in vita il solo Agag, non sterminò quindi tutto il popolo. E quando Samuele vide che Saul aveva risparmiato Agag, gli disse: «Perché dunque non hai ascoltato la voce del Signore?» (I Sam 15,19). Da qui il ripudio: «Oggi il Signore ha strappato da te il regno d'Israele e l'ha dato a un altro migliore di te», cioè Davide (1 Sam 15,28). E infine «Samuele abbatté Agag davanti al Signore a Gàlgala» (33).

Una storia estrema e lontana dai nostri gusti (religiosi e civili), ma simile a molte altre nella Bibbia che non teme di mostrarci volti di Dio che non ci piacciono. Dal capitolo precedente, poi, sappiamo che Mordecai era un beniaminita (2,5), quindi un discendente di Saul. Il conflitto tra ebrei e amalekiti era stata la causa della rovina di Saul. L’apparizione sulla scena di un discendente di quell’Agag è allora una minaccia concreta per Mordecai, discendente di Saul. Per il lettore biblico il quadro è completo: capisce che il paesaggio sarà striato da un nuovo importante conflitto, inscritto nel nome di questi due uomini.
Il conflitto inizia da una ribellione di Mordecai: «Mordecai non si prostrava davanti a lui. Allora quelli che stavano nel palazzo gli dissero: “Mordecai, perché non ascolti i comandi del re?”(...) Ma egli non li ascoltava» (3,2-4). Il testo – né quello greco né quello ebraico – non ci dice perché Mordecai trasgredisce l’ordine del re. Sappiamo solo che non si prostra, non si inchina davanti al passaggio di Aman, e non sente ragioni. A noi piace immaginare spiegazioni per questa non-prostrazione (idolatria? invidia?...), ma all’autore biblico interessa solo approvare il gesto di Mordecai e registrare un conflitto radicato nella storia di due “‘figli” la cui bocca si allega perché i padri hanno mangiato uva acerba (Ez 18,2).
Allora le guardie fecero presente ad Aman che Mordecai trasgrediva gli ordini del re... Aman, accortosi che Mordecai non si prostrava davanti a lui, si indignò grandemente. Gli parve cosa meschina spingere la sua mano soltanto contro Mordecai e così decise di sterminare tutti i Giudei» (3,5-6). Altro colpo di scena: un conflitto tra due uomini diventa subito conflitto tra due popoli, uno grande e potente, l’altro piccolo e straniero. Uno sterminio totale, un herem, come lo fu quello ordinato da Samuele-YHWH a Saul, un atto di reciprocità negativa diacronica.

Il testo ebraico aggiunge un dettaglio: per Aman sarebbe stata «una cosa meschina» uccidere un solo uomo; e così, per evitare questa meschinità, decise di sterminare l’intero popolo ebraico. Anche in questi dettagli si nasconde spesso la sapienza della Bibbia. La parola ebraica usata per dire “cosa meschina” è baza, che rimanda a disprezzare. Quindi prendersela con un solo uomo, per giunta di rango più basso e straniero, avrebbe significato per il primo ministro disprezzare la propria dignità; per evitare questa auto-umiliazione era necessario uno sterminio collettivo, come se l’aumento in quantità umana potesse aumentare la dignità del suo gesto. Sono scene tristissime che vediamo ripetersi ogni giorno. Ai potenti non basta punire una singola persona, è troppo “meschino” per la loro “dignità”. Non basta colpire l’imprenditore che non si prostra, no: vogliono distruggere tutta l’azienda, fino alla chiusura dell’ultimo capannone, al licenziamento dell’ultimo lavoratore. Per loro non è sufficiente colpire il singolo sacerdote o suora, no: vogliono distruggere tutta la diocesi, tutta la comunità, magari la Chiesa intera. Se non abbassi la testa, non eliminano solo te: sono assetati del sangue della tua famiglia e dei figli, una testa sola è troppo meschino. Perché, alla fine, vorrebbero essere come Dio: onnipotenti. È questa la dimensione tremenda e disumana del potere, quella che ci fa più paura, perché somiglia alla potenza bruta degli dèi pagani. Mordecai non abbassò la testa. Sapeva a cosa andava incontro, eppure non si prostrò. Molti fratelli e molte sorelle di Mordecai continuano a camminare dritti senza prostrarsi davanti ai potenti che vorrebbero essere Dio e finiscono per diventare solo degli stupidi idoli. E la Bibbia li accompagna – «Anche se non la leggi, sei nella Bibbia» (Elias Canetti).


L’inizio del conflitto tra Mordecai e Aman ci svela alcune dinamiche del potere e della resistenza dei giusti che pur di non abbassare la testa rischiano la vita loro e della loro comunità


Aman incontra il re Assuero e gli comunica il suo assurdo piano: «Allora disse al re: “C'è un popolo disperso tra le nazioni in tutto il tuo regno, le cui leggi differiscono da quelle di tutte le altre nazioni; essi disobbediscono alle leggi del re e non è conveniente che il re glielo permetta. Se piace al re, dia ordine di ucciderli, e io assegnerò al tesoro del re diecimila talenti d’argento”» (3,8-9). Aman usa anche il denaro come strumento per persuadere il re, promettendogli una somma enorme (un talento babilonese pesava in quel tempo circa 30 kg). Assuero si lascia convincere, ma non sembra interessato a quel denaro: «Il re disse ad Aman: “Tieni pure per te il denaro, e tratta questo popolo come vuoi tu”» (3,11). Non è facile ricostruire l’intenzione originale dell’autore e capire se veramente il re non accetta quel denaro. Nel mondo antico, incluso quello biblico, i linguaggi dei doni e dei contratti erano diversi dai nostri e molto più intrecciati tra di loro – si pensi all’acquisto di Abramo del terreno per la tomba di Sara (Gn 23). C’era un certo pudore sociale attorno alle transazioni monetarie. Noi oggi abbiamo conservato qualcosa di quel pudore e quindi un linguaggio inverso e paradossale solo per i doni – “è una cosa piccola…”, “non dovevi...”, “mi dispiace...” –, mentre siamo molto espliciti e non-ambigui nei contratti, che sono tanto più dettagliati e precisi quanto meno ci fidiamo gli uni degli altri.
È interessante notare che il patto di matrimonio è più semplice e “impreciso” di un contratto per la Rc auto, perché in quel patto sono i corpi, i testimoni, gli amici, le parole dette che parlano insieme e più delle parole scritte. Ma ormai le parole dei contratti stanno diventando una grammatica universale di tutte le relazioni, e così non riusciamo più a capire i doni, fuori e dentro i contratti. Nel mondo antico era diverso, le parole per essere comprese dovevano essere lette insieme a tutto il corpo, agli ammicchi e allo sguardo, elementi essenziali che nei libri sfuggono, e così non capiamo più cosa accade nei fatti dopo le parole. Forse dovremmo imparare di nuovo a leggere patti e contratti insieme a occhi, mani, lacrime, abbracci, che sigillano quelle parole scritte con la fragile responsabilità della nostra carne.

Nel dare il suo assenso ad Aman, il re «preso il suo anello lo donò ad Aman, per mettere il sigillo sui decreti contro i Giudei» (3,10). L’anello era anche il sigillo del re, impresso sulla ceralacca dei suoi dispacci. Un anello del padre del popolo che qui diventa strumento di morte.
Un altro padre, in un altro conflitto interpersonale, donò il suo anello per ridare a chi ritornava dai porcili la dignità di figlio. Il conflitto tra gli anelli di morte e quelli di vita attraversa la storia, che cresce in umanità tutte le volte che gli anelli del padre misericordioso sono più numerosi degli anelli di Assuero – almeno uno di più.

l.bruni@lumsa.it

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