giovedì 22 gennaio 2015
È il Paese europeo con la percentuale più alta di jihadisti in rapporto alla popolazione. Le comunità islamiche tra integrazione e chiusura. (Giovanni M. Del Re)
COMMENTA E CONDIVIDI
Nessun Paese ha un numero più elevato, in rapporto alla popolazione complessiva, di foreign fighters, i jihadisti partiti per la Siria e l’Iraq sotto le bandiere dello Stato Islamico: oltre 350 su un popolazione di undici milioni di abitanti (dalla Francia, che conta 60 milioni, se ne sono andati circa 370). Parliamo del Belgio, dove gli attentati sventati all’ultimo secondo dalle forze di sicurezza hanno riacceso con forza il riflettore su una questione che agita da tempo i dibattiti interni: è fallita l’integrazione nel Paese? Mentre i sociologi e i politici si dividono, i belgi pensano di sì: secondo un sondaggio realizzato nel 2013 per la tv francofona pubblica Rtbf e il quotidiano La Libre, 4 su 5 sono convinti che le comunità straniere non siano bene integrate, 8 su 10 che stia crescendo il radicalismo religioso.  Partiamo dalle cifre. Secondo l’ultimo dato diffuso per il 2014 dall’Ufficio Statistico, il Belgio conta 1.214.605 stranieri su una popolazione complessiva di 11.150.516 abitanti (il 10,9%). La maggior parte viene da Paesi europei, tra gli extracomunitari predominano turchi e marocchini. La massima concentrazione si registra a Bruxelles, con 385.000 stranieri su 1.163.000 abitanti (il 33%), mentre la Vallonia (la regione francofona del Sud) conta un tasso di immigrazione del 9,7%, le Fiandre del 7,5%. Cifre che però non tengono conto delle persone di origine straniera che oggi hanno un passaporto belga. Secondo una ricerca dell’Università cattolica di Lovanio, ad esempio, le sole persone di origine marocchina (inclusi i cittadini belgi) nel 2012 erano 429.580, circa la metà a Bruxelles.   Il Belgio ha una lunga storia d’immigrazione, che ha visto gli italiani fare la parte del leone, attirati negli anni Cinquanta e Sessanta dalle miniere di carbone e dalle industria dell’acciaio della Vallonia. Ma è soprattutto dagli anni Ottanta che lo Stato ha affrontato con più decisione la questione, puntando su due linee direttrici: facilitare l’acquisizione della nazionalità belga e cercare di affrontare i problemi economici e sociali (lo Stato sociale belga è tra i più generosi d’Europa). Nel 1993 è stato creato il Centro per la pari opportunità e la lotta contro il razzismo, mentre le Fiandre hanno reso obbligatorio un corso di lingua e cultura fiamminga.  Indubbiamente, colpiscono le immagini di un quartiere come Molenbeek nel cuore di Bruxelles (pochi giorni fa teatro di arresti e perquisizioni in seguito al piano di attacco terroristico sventato), dove è raro vedere una donna senza velo e dove ovunque sono scritte in arabo (lo stesso si potrebbe dire per un altro quartiere della capitale, Anderlecht, o in varie aree di Anversa).  «Attenzione – commenta Corinne Torrekens, sociologa dell’Università libera di Bruxelles –. In Belgio mai l’integrazione è stata intesa come assimilazione, occorre piuttosto parlare di interculturalità». E certo la dinamica identitaria da parte dei musulmani, spiega la sociologa, è in aumento: «L’islam viene sempre più visto come elemento di cui essere fieri. Ma questo non vuol dire necessariamente una chiusura in se stessa della comunità». Un’opinione non del tutto condivisa da un’altra sociologa, della sezione fiamminga della stessa Università libera della capitale, Jessy Siongers, autrice di uno studio, «Giovani a Bruxelles»: «Il divario – ha detto al quotidiano fiammingo De Morgen – tra giovani marocchini e i belgi, che sono i gruppi etnici dominanti, rimane profondo».  Certo è che dal 2001 il nome più frequentemente dato ai neonati a Bruxelles è Mohammed, e, secondo uno studio dell’Università cattolica di Lovanio, nel 2020 la maggioranza della popolazione di Bruxelles sarà musulmana (al momento è pari a un terzo). Le tensioni salgono, nel 2009 suscitò proteste nella popolazione musulmana l’introduzione della legge che vieta a donne e ragazze (insegnanti e allieve) di portare il velo a scuola, come pure alle dipendenti pubbliche. Una legge che secondo alcuni ha portato alla rapidissima espansione delle liste d’attesa delle tre scuole materne ed elementari di confessione musulmana di Bruxelles. Nel 2012 dominò le cronache locali una vera e propria rivolta di piazza a Molenbeek, dopo che una giovane donna (belga convertita) fu fermata dagli agenti perché interamente velata (la 'legge antiburqa' del 2011 vieta di nascondere completamente il viso). «Se voglio recarmi all’estero la via più breve è andare a Molenbeek. La politica dell’integrazione è fallita», sentenziò, tra virulente proteste, il politico liberale Didier Reynders, allora vicepremier, e oggi ministro degli Esteri.  «L’allarme – reagisce però Torrekens – è esagerato. Perché si dimentica che ci sono molti belgi musulmani che hanno completato gli studi, fanno carriera, e oggi sono a pieno diritto parte della classe medio-alta». Anche se, certo, c’è il problema opposto, che riguarda i giovani 'perdenti' nei quartieri più degradati come Molenbeek. «Il vero problema – commenta la sociologa – è che la discriminazione è ancora molto forte, soprattutto sul fronte del mercato del lavoro dove sistematicamente a pari qualifica viene scartato il candidato con nome straniero. Lo Stato non ha fatto abbastanza contro questo fenomeno di ghettizzazione». Non raro è l’abbandono scolastico che peggiora le chance di trovare un’occupazione. E così, osserva Torrekens, succede che alcuni giovani «si lasciano affascinare dal radicalismo, dalla rottura con la società belga, da discorsi semplicistici che contrappongono 'noi a loro' e propongono uno schema di comportamento tanto affascinante quanto pericoloso».   Non pochi lamentano l’assenza dello Stato belga sulla cruciale questione della formazione religiosa. Sul quotidiano La Dernière Heure l’imam Jamal Habbachich, responsabile della moschea Attadamoune di Molenbeek, ha lamentato che «la maggioranza degli imam non parla né francese né fiammingo». Questo perché 'importati' da fuori, da Paesi come l’Egitto e soprattutto l’Arabia Saudita. «I sauditi – denunciava tempo fa a Le Soir il sociologo Felice Dassetto, fondatore del Centro interdisciplinare di studi dell’Islam nel mondo (Cismoc)presso l’Università Cattolica di Lovanio – hanno costruito numerose moschee, hanno inviato loro religiosi e molti soldi per propagare i messaggi salafiti (in linea con l’islam ultratradizionalista e conservatore, proprio della linea wahhabita dell’Arabia Saudita n.d.r.). La grande Moschea di Bruxelles ne fa parte. E sono loro a formare quasi tutti gli imam di Bruxelles». Un impatto non da poco: al momento nella sola Vallonia e Bruxelles ci sono oltre 650 professori di religione islamica per 36.000 allievi, e un totale di 77 moschee a Bruxelles, 89 in Vallonia (contro 162 nelle Fiandre). «Purtroppo ammette anche l’imam Habbachich - alcuni musulmani qui in Belgio hanno aderito all’islam più tradizionalista, ed è difficile farli uscire da questo ingranaggio». A novembre il ministro dell’Insegnamento superiore della regione Vallonia, Jean-Claude Marcourt, ha annunciato un 'lavoro di riflessione' per realizzare un corso di formazione specifica per gli imam. In realtà già dal 2006 il già citato Cismoc offre un corso formazione continua in 'scienze religiose: islam'. Gli sforzi insomma si cominciano a vedere anche su questo fronte, ma per ora certo non bastano. E il tempo e gli avvenimenti correnti non giocano a favore dell’integrazione in Belgio.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: