martedì 5 agosto 2014
​L'America Latina cresce economicamente ma non è più «giusta».
di Lucia Capuzzi
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È ancora il “Continente ardiente”. Non più, però, per la molteplicità di focolai rivoluzionari. L’America Latina è una fucina di modelli di sviluppo. Economici, in particolare. In cui la crescita viene armonizzata con un forte contenuto sociale. Il ritratto tracciato dal presidente russo Vladimir Putin nella sua recente visita è un omaggio – non proprio disinteressato – agli enormi progressi compiuti dalla regione negli ultimi decenni. Finiti gli anni bui dei generali al potere, il club democratico si è così allargato da comprendere ormai tutte le nazioni, con l’eccezione di Cuba. Il prodotto interno lordo dell’immensa aerea compresa tra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco è cresciuto del 4 per cento rispetto al 2004, secondo le rilevazioni del Fondo monetario internazionale. E, soprattutto, le risorse accumulate hanno cominciato a filtrare dal vertice alla base delle società latinoamericane. La classe media è aumentata del 50 per cento nello stesso periodo. Al contempo, la povertà si è ridotta del 16. Risultati non da poco per l’ex Continente più diseguale del pianeta. Perso quest’ultimo, triste record, l’America Latina, però, ne ha guadagnato un altro, non meno drammatico. La regione è la più violenta del mondo con tassi di omicidio tripli rispetto alla media globale. In undici Paesi dell’area questi hanno raggiunto “livelli epidemici”, con più di dieci ogni centomila abitanti. All’Honduras spetta il macabro primato: 79 ogni 100mila residenti. Non va molto meglio in Venezuela, Messico, Repubblica Dominicana, Brasile, El Salvador e Guatemala. Il “buco nero” resta, comunque, l’America Centrale, dove si assiste a una strage di giovani: la gran parte delle vittime non supera i trent’anni. Non sono solo gli assassinii a schizzare verso l’alto. Ogni giorno, 460 donne sono vittime di stupro, rapimenti e estorsioni sono continui, milioni di persone devono abbandonare le loro case per salvarsi la vita. L’escalation criminale si è fatta vertiginosa. E produce un vero e proprio bagno di sangue, iniziato una decina di anni fa. Proprio quando il binomio benessere e libertà metteva radici. Un vistoso paradosso. O, meglio, due delle tante facce che compongono il poliedro latinoamericano attuale. Il Messico ruggente e ferito dalla narco-guerra è l’esempio perfetto di questa dicotomia. Tanto che il Paese viene definito, a seconda dei momenti, “locomotiva del Continente” o “Stato fallito”.  È ovvio – ma è bene ribadirlo – che il dilagare della violenza non sia una conseguenza diretta della raggiunta democrazia né della crescita. Impossibile, però, non domandarsi perché una tale esplosione criminale si verifichi proprio ora. Ciò – affermano gli esperti – è dovuto essenzialmente alla convergenza di due fenomeni: la “mutazione genetica” subita dai gruppi delinquenziali e la fragile architettura dei sistemi democratici latinoamericani, viziati da un ingombrante “peccato originale”. Ovvero – dice José Miguel Cruz, del Latin American and Caribbean Center della Florida International University – lo scollamento, per carenza di adeguati meccanismi istituzionali, tra politici e cittadini. «L’America Latina è rimasta legata al concetto schumpeteriano per cui la democrazia è un sistema in cui i governanti sono scelti dal popolo con elezioni libere e trasparenti – afferma il noto analista –. Questa è una condizione necessaria ma non sufficiente di un sistema autenticamente democratico. È necessario stabilire delle misure per cui gli eletti rendano conto agli elettori del loro operato. Le democrazie latinoamericane hanno trascurato questo aspetto: una volta designati, i rappresentanti si sentono svincolati». Il che consente il proliferare della corruzione, male endemico del Continente. E libera i governanti dal pesante fardello di dover mettere mano a un punto dolente: la riforma degli apparati di sicurezza. Non solo la polizia e l’esercito ma anche il sistema giudiziario, carcerario, la struttura della magistratura sono rimasti cristallizzati all’era delle dittature. Spesso a ricoprire i vari incarichi sono le medesime persone che, non di rado, “vantano” corposi dossier a loro dedicati dagli attivisti per i diritti umani in quanto colpevoli di abusi. Violazioni commesse nel passato recente e ripetute nel presente. «Le cattive abitudini tendono a perpetuarsi», sottolinea Cruz. Anno dopo anno, i problemi lasciati dalle “riforme incompiute” si sono sommati. Ora, per un effetto accumulazione, i nodi sono arrivati al pettine. «Se gli Stati avessero preso prima le dovute contromisure ora non sembrerebbero così inadeguati di fronte alla nuova minaccia criminale», afferma Sonja Wolf, dell’Instituto para la Securidad y la Democracia (Inysde) di Città del Messico. E qui veniamo al secondo aspetto: l’emergere di autentiche “multinazionali del crimine”, mafie transnazionali potenti e ricchissime, legate al multimiliardario business della cocaina. Non è un caso che i “mattatoi” di esseri umani seguano la scia della polvere bianca. Sono, cioè, collocati lungo le rotte attraverso le quali quest’ultima, dal luogo di produzione nel Sud del Continente, raggiunge i centri di consumo: Usa e, in misura crescente, l’Europa. Proprio l’espansione del business nel Vecchio Continente, rispetto a quello ormai saturo di Washington e dintorni, e l’emergere di nuove occasione in Russia e in Asia hanno determinato un mutamento nel panorama delinquenziale. La fascia caraibica del Centroamerica e la sua la giungla selvaggia, i porti pacifici, le piste aeree lecite e di illecite di Brasile e Argentina sono trampolini stabili per la coca. Quest’ultima, per poter passare, ha necessità di un certo grado di complicità più o meno spontanea degli apparati di sicurezza. Il sistema per ottenerlo è quello classico: plata o plomo, soldi o piombo, corruzione o morte. Negli ultimi anni, i governi hanno risposto all’escalation criminale con un politiche di “mano dura”. Dal Messico al Brasile tanti hanno schierato i corpi speciali. Il che, invece di sconfiggere i narcos, li ha spinti a “migrare” verso gli Stati più deboli. Portando questi ultimi al collasso. L’esempio centroamericano è eloquente. Il giro di vite – sottolinea Steven Dudley, condirettore di Insight Crime e tra i più autorevoli esperti di violenza - spesso si è limitato a decapitare i vertici delle organizzazioni, favorendone la frammentazione. I “capi”, inoltre, per evitare di esporsi – continua Dudley – moltiplicano gli incarichi su commissione ad organizzazioni minori.Queste ultime non solo crescono ma si professionalizzano. Il risultato è una sorta di feudalesimo criminale, in cui gli scontri sono all’ordine del giorno. La Colombia e le sue bande criminali emergenti ma anche l’Argentina sono due “casi” da manuale. Nella guerra del “tutti contro tutti” la violenza dilaga. Il che, a sua volta, implica un ulteriore irrigidimento degli esecutivi, attratti dallo slogan della “tolleranza zero”. Mentre i presidenti moltiplicano i militari per le strade e gonfiano i budget della Difesa, nessuno mette mano alle riforme incompiute.
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