sabato 25 novembre 2017
Il mare sta diventando uno spazio industrializzato, territorializzato e con nuove infrastrutture. La fibra ottica rilancia la centralità dei cavi sottomarini Su nave il 90% dei traffici mondiali
I tesori del «sesto continente». È partita sui mari
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Mare. Orizzonti infiniti e cuore pulsante del pianeta. L’oceano mondo non stanca mai di sorprenderci. Da tutti i punti di vista. È un polmone naturale, che produce gran parte dell’ossigeno e dell’acqua necessari alla vita; è il metronomo della temperatura del globo e della concentrazione di gas serra. Assorbe il 25% delle emissioni umane. È il futuro economico del pianeta. Abbiamo vissuto un’era dei Mediterranei, spazi di cultura e di commercio regionali, ampliatisi all’Atlantico nell’epoca moderna e contemporanea. Ma il rapporto uomo-mare non ha mai cessato di evolvere. Lo farà ancora, perché la pesca e i trasporti mercantili non sono più che un’infima parte delle attività nel sesto continente liquido. Uno spazio ancora tutto da scoprire, scrigno opulentissimo del pianeta, futuro di una terra sotto forte pressione demografica. Quante cose sono cambiate dal XIX secolo a oggi. Il mare si è in parte ristretto. Non è più l’orizzonte su cui speculavano Alfred Mahan e Julian Corbett, i più grandi teorici del potere marittimo, fautori dell’idea-mare come via di passaggio fra le terre. Oggi siamo entrati nel tempo della mondializzazione degli spazi marittimi, della massimizzazione del loro ruolo, nella triplice dimensione, superficiale, aerea e sottomarina.

Ce lo ricorda la guerra silenziosa, sfuggente, che si combatte sotto la superficie. Con una gara globale al sommergibile spia, per carpire segreti altrui e nascondere i propri. Perché i sottomarini sono poliedrici. Riescono a fare intelligence, sorveglianza e ricognizione, accedendo ad informazioni altrimenti non osservabili. Fanno gola a tanti, alle marine oceaniche e alle flotte meno ambiziose, come quella argentina, finita sotto i riflettori mondiali per la tragedia di queste ore del 'San Juan'. Gli scenari stanno mutando, anche in superficie. Mai come oggi c’è stata una corsa tanto frenetica alle basi navali all’estero. E al gigantismo della cantieristica civile. Le super-portaerei americane da 100mila tonnellate quasi sfigurano davanti alle mega-petroliere da 500mila tonnellate. Le portacontainer sono i nuovi ’mostri’ marini, lunghi 400 metri e sempre più voluminosi. Passeranno presto da 18mila container l’uno a 21mila, perché i ritmi del commercio navale si son fatti frenetici. Garantiscono oggi il 90% di tutti i traffici mondiali, ma subiscono una forte tensione al rialzo.

Negli ultimi vent’anni il tonnellaggio trasportato è raddoppiato fino a 9 miliardi di tonnellate, che saliranno verosimilmente a 14 miliardi annui nel 2020. Anche il mercato delle crociere marittime è raddoppiato da inizio secolo e farà altrettanto nel breve giro di 15 anni. Il mare sta diventando uno spazio industrializzato, territorializzato e con nuove infrastrutture. Lo stiamo piegando ai nostri bisogni attuali e futuri, se solo pensiamo alle sfide economiche, scientifiche e ambientali che si aprono con lo sfruttamento dei fondali e degli abissi. Pensavamo che le telecomunicazioni spaziali avrebbero fatto tramontare l’era dei cavi oceanici. Invece nulla. Le fibre ottiche hanno rilanciato la centralità geostrategica dei cavi sottomarini, enfatizzando il potere di chi li controlla e li spia. L’emisfero settentrionale, europeo, americano e giapponese, ha in pugno il mercato. Con gli armatori Subcom, Alda Marine, Global Marine System e Orange Marine domina il settore della posa e della manutenzione di queste infrastrutture digitali, che innervano il pianeta e gli scambi intercontinentali. È quasi un oligopolio, con barriere tecniche e finanziarie insormontabili ai più, diretto specialmente a servire l’asse nord-nord, lungo le autostrade del traffico Internet.

È da qui che passa lo sviluppo economico, con scambi finanziari permanenti e tempestivi, legami sinergici fra le borse, investimenti e flussi di capitali. Del mare sappiamo ancora pochissimo. Gli abissi sono inesplorati, perché l’85% è ancora da cartografare. Ignoriamo il 90% della fauna marina. Il pianeta blu è mare incognita. Ci ha svelato pochissimo dei suoi arcana. È nel cuore degli oceani e della loro biodiversità che c’è l’ultimo tesoro del pianeta. Le trivellazioni a grandissima profondità sono solo agli albori, e già aprono prospettive inimmaginabili, per l’accesso a risorse scarsissime sulla terraferma, come le terre rare, mix di 17 metalli ineludibili per le tecnologie di punta. Li bramiamo per gli smartphone, gli schermi televisivi e dei computer, le batterie dei veicoli ibridi, il laser e molto altro. La corsa ai minerali sottomarini è appena cominciata e già si delineano tensioni geostrategiche intorno al loro controllo nelle zone economiche esclusive e nelle piattaforme continentali. Per la zona internazionale c’è un guardiano ad hoc: l’Aifm o Autorità internazionale dei fondali marini, creata dalla Convenzione dell’Onu sul diritto del mare, mai ratificata dagli Stati Uniti. L’Aifm è l’unica autorizzata a rilasciare i permessi di esplorazione, di sfruttamento e tutela. Finora ne ha concesso una ventina, accaparrati da quel pugno di Paesi in grado di finanziare e condurre le ricerche, come Francia, Germania, Stati Uniti, Russia, Cina, Corea del Sud e Singapore. Qualcosa che riproduce il classico schema della divisione del potere mondiale.

Una sfida soprattutto per il domani. Oggi invece è già tempo di risorse biologiche marine, nerbo della ricerca farmacologica e cosmetologica, dalle applicazioni quasi infinite. Alcune specie marine hanno straordinarie proprietà anti-infiammatorie, antalgiche e di rigenerazione dei tessuti, mille volte più potenti della morfina. Le ricadute economiche promettono un eldorado, difficile da stimare ma certo. Tanto che la battaglia per capeggiare il settore è già iniziata. Il deposito di brevetti sulla genetica marina garantisce al titolare l’esclusività di sfruttamento per due decenni. Ma anche qui siamo alle solite, visto che 10 Paesi detengono il 90% dei brevetti. In testa ci sono gli Stati Uniti, seguiti dal Giappone, dalla Germania e dalla Francia. Paradossi delle talassocrazie plutocratiche nordiche, capaci di investire e ricercare nelle acque del Sud, le più ricche di risorse. L’Oceano Indiano custodisce nei suoi forzieri il 55% delle riserve mondiali di petrolio, il 60% di uranio, l’80% dei diamanti, il 40% del gas e il 40% dell’oro. Parliamo di una via di transito cruciale, sorta di trampolino verso il cuore dinamico del Sud-Est asiatico, nuovo centro del potere geopolitico mondiale, a Est del Rimland. Le linee marittimo-commerciali che lo solcano sono in pieno fermento per le azioni di pirateria e per le prospettive aperte dalle megainiziative economiche cinesi di una via marittima della Seta per il XXI secolo e con l’omologa terrestre euro-asiatica, entrambe tese a massimizzare l’influenza di Pechino in Africa e in Europa. In gioco vi sarà il predominio dell’Oceano Indiano, cosa che spiega in buona parte le politiche di Pechino nel mar Cinese meridionale, una somma di rivendicazioni, colpi di mano ed esplorazioni offshore.

La Cina sta cercando di approfittare delle risorse economiche dei mari del Sud. Lo fa talvolta con arroganza. Si sta dotando di nuove piattaforme capaci di operare in fondali di 1.500 metri e perforare fino a 9mila metri. Intorno agli idrocarburi offshore si accenderanno gli animi, per via di confini contesi. Potrà essere il caso dei Balcani, della Croazia e del Montenegro, come del Mediterraneo orientale e del Canale di Mozambico. Una guerra economica frenata oggi solo dal crollo dei prezzi del greggio, che ha reso insostenibili molti progetti marini. Altri invece stanno decollando. È il caso delle energie marine rinnovabili, la nuova frontiera pulita, galvanizzata dagli accordi sul clima. Tira aria di affari intorno allo sfruttamento dei venti, delle maree, delle correnti, e delle tecnologie osmotiche e termiche del mare. L’Enea è in prima fila. Come l’Europa intera, che nel 2014 ha pubblicato una strategia per 'realizzare il potenziale dell’energia oceanica, nel mare e negli oceani, all’orizzonte 2020 e oltre'. Occorrerà la massima cautela climatica e naturalistica per tutelare questo ecosistema fragile, res communis messa a dura prova dall’esplosione della curva demografica e dalla sua massima concentrazione entro i 100 chilometri dalle coste planetarie. È ora di fare degli oceani un mare nostrum globale e irenico, come auspicato da Papa Francesco.

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