martedì 12 maggio 2020
Dall’Amazzonia all’Africa all’Australia: non solo deforestazione e crisi climatica, ora l’esistenza di comunità storiche è messa a rischio dall’epidemia di Covid-19
La pandemia mette in pericolo il futuro di piccole tribù e antiche culture che popolano il nostro pianeta

La pandemia mette in pericolo il futuro di piccole tribù e antiche culture che popolano il nostro pianeta - Ansa

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Trecentosettanta milioni di persone: tenete a mente questo numero. Supera abbondantemente l’intera popolazione statunitense: rappresenta quasi il 5% di tutte le persone sulla Terra. Donne e uomini come noi, ma nei fatti non altrettanto meritevoli di tutele sociali. Trecentosettanta milioni di persone sono complessivamente gli abitanti di Italia, Francia, Spagna, Regno Unito, Germania. Ed è una cifra che potrebbe essere riportata dai libri di storia con il termine di “genocidio”. Quello meno notiziabile, il meno interessante: quello delle ultime popolazioni indigene viventi sulla Terra, causato dal Covid–19. Comunità indigene dell’Amazzonia, Masai in Kenya, Orang Asli in Malesia, e poi le tribù in Indonesia, Filippine, Ecuador, Colombia, India, Canada, Australia: in questo momento, l’emergenza globale è così vasta che per loro non rimane attenzione.

Survival International, il movimento mondiale che difende i diritti dei popoli indigeni stima che 370 (dato delle Nazioni Unite) sia una cifra al ribasso: le tribù del pianeta conterebbero oltre 430 milioni di persone. Di questi, circa 150 milioni di individui appartengono in senso stretto ai “popoli tribali”, ovvero 5.000 comunità in 70 Paesi sparsi nei cinque continenti. Si va da quelli meno numerosi come “L’uomo della buca” (1 persona, che vive sola da 22 anni ed è l’ultima erede della sua tribù in Amazzonia) o gli Akuntsu (4 persone) a quelli più grandi e noti come i Quechua (10 milioni di individui), i Nahuatl (5 milioni), gli Aymara (2 milioni). Oggi questa pandemia è in grado di decimare le ultime popolazioni indigene esistenti. Luis Sepúlveda, scomparso di recente proprio a causa del coronavirus, aveva vissuto nel 1977 con gli indios Shuar dell’Ecuador. Grande difensore dei diritti dei popoli originari, l’autore cileno scriveva: «L’ultima rivoluzione rimasta in sospeso è quella dell’immaginario: dobbiamo essere capaci di immaginare in quale mondo e società vogliamo vivere, e se vogliamo essere cittadini o consumatori».


L’isolamento dal mondo in questo momento può essere l’unica salvezza. Una tecnica di resilienza antichissima

All’inizio il Covid–19 appariva come un problema grave ma tuttavia relativo, perché sembrava colpire solo le persone più anziane. Serpeggiava l’idea di un sacrificio umano accettabile: si trattava di vittime già indebolite dal tempo e dalle malattie, persone escluse dal ritmo produttivo, consumatori poco interessanti. Lo stesso oggi accade a circa 400 milioni di indigeni: rischiano di essere considerati sacrificabili. Sono i depositari dei miti leggendari, degli archetipi culturali e psicologici, dei segreti delle foreste incontaminate, del senso stesso della presenza umana sul pianeta. Curiosamente anche loro, come i nostri anziani, sono i guardiani della nostra memoria: i modelli di biodiversità umana utili a salvaguardare la biodiversità naturale. Il cui dissesto è alla base delle moderne pandemie. Come spiega Francesca Casella, portavoce di Survival International Italia: «Avendo sviluppato stili di vita sostenibili, i popoli indigeni hanno contribuito direttamente all’altissima diversità di specie che li circonda: non è un caso che l’80% della biodiversità terrestre si trovi nei loro territori ».

In Amazzonia, la deforestazione si ferma dove vivono gli indigeni, in India gli animali a rischio estintivo come le tigri proliferano solo nelle zone abitate dalle popolazioni ancestrali. E anche l’Onu ha dichiarato che investire nella tutela dei popoli indigeni sia il modo più efficace per proteggere le foreste. Secondo Casella, sia per i popoli mai contattati che per le altre tribù indigene, il contagio da Covid–19 ha una portata molto più pericolosa della media. I primi sono già attaccabili da malattie importanti per noi ormai ordinarie: qualsiasi contagio potrebbe essere per loro letale. «Per gli altri, come gli Aborigeni australiani o gli Innu del Canada, che il contatto forzato ha privato di terre, risorse e autosufficienza nel secolo scorso, il rischio contagio è altissimo: sono meno sani e non hanno accesso alla stessa assistenza sanitaria garantita al resto della popolazione ». Come stanno reagendo in questi giorni? «Alcune comunità hanno chiuso completamente l’accesso alle loro terre agli esterni, e alcuni gruppi si stanno rifugiando nelle loro aree più remote (come in Ecuador o in Canada, ndr)».


Per 3–400 milioni di persone nel mondo la nuova crisi sanitaria non è solo un problema di vita o di morte. Con loro potrebbe scomparire la civiltà e la cultura del popolo cui appartengono


Anche perché «noi non abbiamo cliniche né dottori: se una comunità si infetta, nessuno ci salverà. Al momento possiamo usare solo le nostre piante tradizionali, aglio e zenzero, per prevenire l’infezione», racconta Tzamarenda Estalin, rappresentante degli Shuar Tawasap nell’Amazzonia ecuadoriana. Il “polmone verde” del pianeta è anche il luogo dove si conta la gran parte di popolazioni indigene del mondo, oggi già minacciate dalle mire colonizzatrici di cercatori d’oro e taglialegna. E dalle politiche del presidente Jair Bolsonaro: da qualche tempo, il governo federale regala micro appezzamenti ai contadini che bruciano gli alberi per farne campi coltivabili, sottraendo terre alle tribù. Un allarme in questo senso è stato rilanciato in questi giorni dal fotografo brasiliano Sebastião Salgado. Secondo i dati della Rete ecclesiale panamazzonica, i contagi nella regione – che si estende per nove Paesi –, sono oltre 43mila, difficile sapere quanti esattamente riguardano popoli originari. «Il coronavirus potrebbe spazzarci via», avverte Ianucula Kaiabi, un leader indigeno nel parco nazionale Xingu nell’Amazzonia brasiliana, che ospita circa 6.000 persone di 16 diverse tribù. Marivelton Baré, presidente della Federazione delle organizzazioni indigene di Rio Negro, afferma che il governo non ha offerto alcun aiuto e che le persone inizieranno a ignorare il consiglio di rimanere nei loro villaggi se il cibo mancherà. E avverte: «Se la scelta è di essere infetti o affamati, la maggior parte sceglierà di sfamarsi, quindi le conseguenze saranno disastrose».

Oltre l’Amazzonia, il problema è di portata mondiale. Dappertutto sono i popoli stessi che scelgono di isolarsi, consapevoli dei rischi che corrono con la pandemia. Paradossalmente, a causa del coronavirus i governi sono costretti a lasciarli vivere nei luoghi d’origine, da cui erano stati scacciati per interessi economici, nonostante la legittimità ad abitarli riconosciuta dal diritto internazionale. In India, i Chenchu sono una tribù minacciata di sfratto per far spazio alla Riserva di tigri Amrabad: ora, con il benestare delle autorità, si stanno isolando nella loro foresta, dove sono autosufficienti. A Sumatra, i nomadi cacciatori– raccoglitori Orang Rimba sono tornati nei loro territori ancestrali, da dove erano stati cacciati per far spazio alla coltivazione della palma da olio. E hanno adottato una propria misura di quarantena: costruire una casa a distanza di sicurezza dall’accampamento per tenere gli infetti lontani per il periodo necessario. Le Isole Andamane, dove vivono gli indios Jarawa minacciati dall’invasione dei turisti, sono attualmente chiuse al mondo esterno, a parte pochi visitatori autorizzati. Mentre i Masai in Kenya stanno mettendo da parte i propri riti collettivi e alcune attività comunitarie per prevenire il contagio. Questa innata resilienza dei popoli indigeni, capaci di adattarsi ai cambiamenti e all’ecosistema è una forma di sostenibilità sociale. N el XV secolo l’arrivo degli europei, tra omicidi e malattie importate, ha ucciso circa l’85% dei popoli nativi delle Americhe: si stimano 56 milioni di persone in un secolo. Un genocidio così vasto da alterare il clima mondiale. Oggi, tra tutti gli umani, 400 milioni di individui sono in assoluto i più a rischio per la pandemia. Rappresentano la nostra identità più profonda e vulnerabile, la radice su cui ricostruire un futuro simbiotico con la natura: uno “human habitat”. Come scrive Arundhati Roy: «Il primo passo per reimmaginare un mondo terribilmente sbagliato sarebbe fermare l’annientamento di coloro che hanno un’immaginazione differente (...) è necessario concedere spazio fisico per la sopravvivenza di quanti possono sembrare i custodi del nostro passato, e invece potrebbero essere davvero le guide per il nostro futuro».

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