sabato 8 novembre 2014
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L'Eurozona è come l’America dopo la crisi del 1929, ma senza un Roosevelt. Stati Uniti, Giappone, Spagna, Francia, Irlanda: nessun Paese è uscito dalla crisi di domanda aggregata (consumi più investimenti) seguita alla crisi finanziaria globale restando sotto il vincolo del 3% del rapporto tra debito e Pil. In Italia siamo alle prese con una coperta corta, anzi cortissima. Abbiamo un debito elevato (che implica una spesa per interessi attorno agli 80 miliardi l’anno) e una tassazione altrettanto elevata, e con i vincoli del 3% i margini di manovra riformatori sono praticamente nulli: se proviamo a ridurre le tasse in modo robusto sforiamo immediatamente il vincolo. Prova ne è l’equilibrismo della legge di stabilità per il 2015, che cerca disperatamente di dare uno stimolo espansivo all’economia, ma non ci riesce né sulla carta né secondo le previsioni stesse del governo che si aspetta da essa un contributo modesto alla crescita. Nonostante l’evidenza, l’Unione Europea insiste nell’errore di questi anni, imponendoci un’ulteriore aggiustamento dei conti per lo scostamento che si registra rispetto al pareggio strutturale di bilancio (calcolato su parametri arbitrari che non hanno niente di scientifico, come ha spiegato su LaVoce.info l’ex commissario alla riqualificazione della spesa pubblica, Carlo Cottarelli). L’altro elemento di questa commedia dell’assurdo è che la stessa Ue tollera al proprio interno dei veri e propri "paradisi fiscali" che sottraggono contabilmente, con pratiche di elusione, produzione e gettito fiscale al nostro Paese. L’indagine giornalistica ribattezzata Luxleaks pubblicata ieri da una serie di periodici ("l’Espresso" per l’Italia) fa capire in modo molto semplice come una produzione di 100 da noi può essere ridotta fittiziamente a 10 con una transazione presso una filiale in Lussemburgo per evitare di pagare le tasse. In un contesto di questo tipo, è come se ci si chiedesse di essere atleti capaci di vincere la corsa, ma facendoci correre contro atleti dopati. La conferenza stampa di giovedì della Banca centrale europea conferma lo sforzo sovrumano di Mario Draghi nel tenere assieme una "coalizione" di interessi e di visioni del mondo eterogenee in un momento così difficile. Il presidente della Bce ha affermato che c’è l’«unanimità» del Consiglio stesso nell’orientamento a «implementare misure non convenzionali, se necessarie». Sono in realtà necessarie da tempo, ma putroppo il consenso ad adottarle ancora non c’è. Tornando a Roma, c’è da dire che il governo italiano appare finalmente e pienamente consapevole della gravità del momento e del problema. Le previsioni dell’Eurozona non promettono niente di buono né per l’Italia (-0,4% nel 2014, leggero miglioramento nel 2015) né per l’intera area nel suo complesso costretta a rivedere al ribasso le aspettative di crescita. Forse, come si comincia a dire, le cose devono andare ancora peggio prima di poter andare meglio... Non ci restano che tre strade per ridare speranza al Paese. La prima è far sentire la nostra voce in Europa argomentando con dati e fatti. L’appello degli oltre 350 economisti per un cambiamento "alto" delle politiche europee (una «nuova Bretton Woods» della Ue) è un punto di riferimento importante in tal senso e con esso le sue tre proposte principali: quantitative easing all’americana, cioè la stampa di moneta per acquistare titoli pubblici e privati; il piano PADRE per una ristutturazione soft del debito pubblico grazie all’intervento della Banca centrale; proposta di armonizzazione fiscale. La seconda strada è "fare i compiti a casa" lavorando per quanto possibile su debolezze e inefficienze del Sistema Paese portando a termine i propositi di ridurre la durata delle cause civili, migliorare la connessione in rete, elevare il livello d’istruzione, ridurre il peso della burocrazia e della corruzione. La terza è il lavoro dal basso che ogni nostro territorio può e deve fare per identificare la sua vocazione specifica, il genius loci, quei fattori competitivi non delocalizzabili che possono fornire un vantaggio comparato in grado di resistere alla concorrenza a basso costo del lavoro.Gli esempi di successo sono moltissimi dalle eccellenze manifatturiere e tecnologiche alle ricchezze enogastronomiche e alla capacità di valorizzare il nostro patrimonio artistico e culturale. Viviamo un’era in cui la tecnologia, la scienza, il progresso medico stanno producendo risultati impensati e dobbiamo essere grati per le opportunità che ci offrono. Il disastro siamo noi perché il livello di progresso umano è indietro, e stiamo dimostrando in innumerevoli situazioni di non essere in grado di convivere razionalmente e pacificamente nel modo migliore possibile. Tutto questo non deve scoraggiarci, ma indicare piuttosto la direzione della nostra missione.  E qui, per una volta, parlo di me. Da ragazzo, quando ho scelto la professione economica, ero attratto come tanti altri dal desiderio di fare qualcosa per i Paesi più poveri e 'snobbavo' l’Italia. Oggi mi rendo conto che la missione è anche e soprattutto qui, e che è molto difficile. Per questo a chi scrive su queste colonne, secondo una linea – il direttore mi invita a ricordarlo – che non comincia certo oggi a manifestarsi, viene naturale sentirsi solidali con chi è al governo in momenti come questi, sperando che le sue iniziative possano ridare speranza e slancio al Paese. Il che non significa rinunciare a una dialettica, in alcuni momenti anche molto vivace, sulle soluzioni concrete. Da italiani non possiamo non sperare nel successo del cammino intrapreso, perché il fallimento sarebbe il fallimento di tutti.
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