I motori del post-umanesimo girano con alcol e droga
giovedì 31 ottobre 2019

Tornato purtroppo alla ribalta delle cronache in questi giorni – anche grazie al lavoro di approfondimento sviluppato da 'Avvenire' –, il tema dello 'sballo' dei giovani ottenuto mediante l’uso di alcol e droghe è di quelli che dovrebbero occupare l’attenzione e l’impegno di tutti ben oltre i pochi giorni dopo qualche nuova tragedia.

Per questo vale la pena essere ben documentati su alcuni aspetti specifici, come quello dei danni irreversibili scientificamente documentati sullo sviluppo cognitivo dei giovani esposti al consumo di sostanze che alterano la loro coscienza.

Si consideri il caso esemplare dell’alcol, assunto ormai spensieratamente da troppi ragazzi. La sua diffusione aumenta, e lo fa in modo ipocrita: tutti sanno che in discoteca si beve e bevono anche i minori; tutti sanno che è facile per un adolescente aggirare le proibizioni alla vendita di alcolici. Eppure cosa si fa per evitarlo? Davvero poco, a quanto pare.

Secondo l’americano National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism, all’età di 15 anni circa il 33% ha bevuto almeno una volta un superalcolico, e a 18 si sale fino al 60. Gli americani di età compresa tra 12 e 20 anni consumano un totale dell’11% di tutto l’alcol negli Stati Uniti.

In Italia le cose non stanno in modo molto diverso: a 12 anni spesso arriva la prima sbornia e le cronache riportano che i ricoveri a Capodanno per il coma etilico superano quelli per le ferite dalle tradizionali esplosioni. Brutta storia, perché dipinge un quadro non tanto di 'gioventù dissoluta' quanto di padri e madri assenti, strappati via a forza dalla loro responsabilità di genitori per i ritmi e le necessità del 'mercato'. La morte cerebrale da alcol dei giovani non è che l’effetto della morte ideale di molti loro parenti.



Il 55% degli adolescenti dai 14 ai 19 anni
beve alcolici e il 24% ne ha abusato fino a star male

Quale la causa? Negli ultimi decenni si è andata affermando un particolare post-umanesimo che non è quello dei robot, ma della perdita di gusto di vivere. È quella mentalità identificata dal mantra secondo cui la moralità equivale a mettere in pratica una routine scritta da altri, essere buoni esecutori di un protocollo incapaci però di uno sguardo più ampio su quel che gli accade attorno, incapaci di commuoversi almeno sul destino di figli lasciati soli, spesso nell’indifferenza di chi dovrebbe prendersi cura di loro.

Su questa situazione si innesta la sporca furbizia di chi spaccia alcol e droga a chi non dovrebbe consumarlo e di chi fa finta di non vedere. Indifferenza, spaccio, ipocrisia sono un cocktail dirompente per i minori, un autentico esercizio di violenza su di loro che li porta a farsi del male, un po’ per noia un po’ per richiamare attenzione. Servono campagne anti-alcol? Non credo: la mente dell’adolescente è indifesa per scarso sviluppo dei centri della razionalità e del senso del limite cerebrali, per la smania di imitare il gruppo, e per la solitudine.

Una vulnerabilità assoluta che non di rado li spinge al limite del precipizio. I dati del Ministero per la Salute sono sconcertanti. In Italia sono 8 milioni e 600mila i consumatori di alcol e due le fasce più a rischio: quella dei 16-17enni e quella tra i 65 e i 75 anni. Lo confermano anche i dati dell’Osservatorio nazionale adolescenza: i ragazzi si avvicinano all’alcol sempre più precocemente; nella fascia d’età compresa tra gli 11 e i 13 anni, il 36% dichiara di bere bevande alcoliche e uno su 10 si è già ubriacato.

Nei ragazzi più grandi la percentuale sale notevolmente: il 55% degli adolescenti dai 14 ai 19 anni beve alcolici e il 24% ne ha abusato fino a star male. Appare chiaro però che non serve agire solo sui giovani, perché il loro disagio è il sintomo di un male che viene da lontano e che ha afferrato i loro genitori: quel 'male di vivere' di cui parlava Montale e quel 'vivere male' fino a essere scarti per noi stessi di cui parlava Martin Heidegger. Entrambi sono mali generazionali che viaggiano nella società da almeno cinquant’anni, da quando li descrissero Sartre e Moravia. Senza peraltro che in tutto questo tempo abbiamo imparato come uscirne.

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