lunedì 30 marzo 2015
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Gentile direttore, due notizie mi incoraggiano a mandarle questa e-mail: i 220.000 morti in Siria e l’indizione del Giubileo. Mi batto infatti perché il nostro Parlamento semplifichi le procedure per il rilascio del visto d’ingresso in Italia. E trovo che pochi si appassionano alla migrazione "per forza". La mia domanda è: perché è più facile sensibilizzare l’opinione pubblica sulla vicenda di una persona specifica che subisce violenze e atti di ingiustizia piuttosto che su centinaia, migliaia, milioni di individui in stato di sofferenza? Questa domanda ne incoraggia subito altre due: possiamo vivere in un mondo in cui i messaggi di Carità e di Misericordia non si traducano in atti concreti di coraggiosa solidarietà politica, religiosa, umana? Possiamo essere in comunione con i nostri fratelli del mondo e al tempo stesso impedire loro di raggiungerci ponendo frontiere e vincoli disumani?
Francesco de Francisco
Sono sicuro, gentile signor de Francisco, che lei immaginava perfettamente la mia risposta alle sue due ultime domande: un doppio e tondo “no”. Arrendersi a paura, calcoli, irreligiosità e a grettezza, chiudendo le porte in faccia alle persone che subiscono persecuzioni o che fuggono da una mortificante miseria non è giusto, mai. E questa consapevolezza nessuno la può cancellare dalla propria coscienza. Si può tentare di soffocarla di alibi e di autogiustificazioni, persino di autocommiserazione e di piccole e grandi bugie (come quelle vergognose sul “lavoro rubato” o sullo “stipendio fino a mille euro” ai rifugiati). Ma in realtà e in coscienza ognuno di noi, ma proprio chiunque, persino il più cinico masticatore di slogan xenofobi, sa o può capire come stanno le cose. Basta che guardiamo in faccia l’uomo o la donna o il bambino che sta scampando alla morte o che porta i segni della miseria e della fame. La solidarietà, che non è sinonimo di dabbenaggine e porta a distinguere il migrante per forza dal mascalzone d’esportazione, si accende spontanea. E poiché è nel faccia a faccia personale e diretto – lei lo dice bene – che emerge la verità, dobbiamo fare di tutto per non dimenticare che gli esseri umani non sono mai soltanto i numeri di un’emergenza, ognuno di noi ovunque sia nato, qualunque pelle abbia è sempre e in modo unico e originale un volto e un’anima. Voglio dire che un’ingiustizia grande non è solo un grande problema, un’irregolarità di massa non è solo una scottante questione, un traffico mostruoso di persone non è solo un gigantesco scandalo… Qualunque proporzione abbia un evento e un fenomeno che riguarda la vita umana esso è, in sé, l’esatto contrario di uno sconvolgente (o altre volte rassicurante) fatto anonimo. Faccio un esempio niente affatto casuale: la sofferenza e la speranza del popolo siriano ci sono “raccontate” – nonostante le lunghe distrazioni dei mass media – da milioni e milioni di profughi in patria, nei Paesi vicini (Libano, Giordania, Turchia, persino Iraq) e solo in minima parte nelle nostre terre occidentali ed è storia certamente comune, ma scritta da tante diverse storie, tutte speciali, dette insieme con infiniti accenti capaci di interrogarci e coinvolgerci a fondo se appena riusciamo a sentirli. Pensare di salvare tanti, tutti assieme, può sembrarci impresa titanica, ma se questi fratelli di fede e comunque di umanità li pensiamo a uno a uno, famiglia per famiglia, sentiamo che è invece possibile. Dicono che ragionare così, cioè pensare e affermare quello che anche lei grida con le domande che mi ha proposto, sia frutto di facile “buonismo”. E invece è una verità assolutamente scomoda, una di quelle che, quando riusciamo finalmente a vederle e a concepirla, non ci lasciano più in pace. È bene che sia così. Deve essere così. Se vediamo le storie delle persone, cambia la storia dei popoli, tutto cambia. Papa Francesco ci sprona continuamente, e ora anche con l’annuncio del Giubileo, a sentire e a vivere questo nostro tempo come un tempo di svolta, come il tempo della misericordia. Una parola, anzi una condizione straordinaria che appartiene a Dio e appartiene a noi, quando sappiamo fare spazio alla vita dell’altro. E fare questo spazio significa fare pace, e costruire condizioni di libertà e di giustizia non limitate a un pezzo di mondo chiuso in se stesso. Perché la pace, quella vera, quella che non è solo apparente assenza di guerra, passa per sguardi ad altezza d’uomo. E cresce con il farsi carico del debole e dell’oppresso, che è gesto personale e diretto di aiuto e di rispetto, ma anche – e per il credente prima di tutto – preghiera a Dio. Andrea Riccardi, dalla nostra prima pagina di oggi, torna a suggerirlo a noi cristiani italiani, perché siamo capaci di vedere, di ricordare, di resistere alla logica del male e di volere il bene.
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