Recessione e regressione sociale
venerdì 1 febbraio 2019

Dopo cinque anni di crescita – spesso blanda, ma pur sempre crescita – in disarmante solitudine la nostra economia è entrata dunque in recessione. L’Italia, unico fra i Paesi dell’Eurozona, ha visto il Pil depurato dalle componenti stagionali e al netto dell’inflazione contrarsi per due trimestri di seguito. Una recessione statistica, dicono gli esperti, si avverte per ora solo nei numeri. Sul fronte "reale", assomiglia più a una stagnazione che a un vero e proprio tracollo dell’economia.

Ma è comunque un segnale da non sottovalutare, perché rende il Paese molto più fragile agli choc esterni: il peggioramento dei dati congiunturali ha infatti progressivamente ridotto la crescita annua fin quasi ad azzerarla (0,1%). Basta allora una spallata per mandare l’Italia al tappeto con conseguente distruzione di lavoro, reddito e capitale. Non ce lo possiamo permettere.

L’economia ha senza dubbio rallentato dopo l’estate perché il contesto internazionale si è raffreddato. Siamo un Paese esportatore, certo, e la metà di quello che vendiamo all’estero finisce nell’Unione Europea. Ma la minor spinta al Pil dell’export e le tensioni protezionistiche non bastano a spiegare la frenata. A calare infatti è stata soprattutto la domanda interna, quella delle famiglie, in particolare per i beni durevoli – automobili, elettrodomestici e arredamento – e purtroppo anche gli investimenti delle imprese, vero motore di ogni crescita che si possa definire strutturale.

Su queste variabili macro-economiche influiscono pesantemente le cosiddette aspettative e quindi il clima generale, a determinare il quale contribuisce la politica economica di un governo quando, attraverso la Manovra, calibra il prelievo fiscale, agisce sulla spesa pubblica, decide come allocare le risorse.

E c’è un evidente parallelismo tra il deterioramento della fiducia e il calo di investimenti e consumi in un autunno, stagione che, sul fronte politico-istituzionale, è stato caldissimo, per lo scontro frontale del governo con l’Europa e i mercati sul deficit che ci è costato 1,7 miliardi di oneri aggiuntivi sul debito pubblico. In quel lasso di tempo lo spread è arrivato a 350 punti base, la Borsa ha perso il 20% e decine di miliardi di risparmi, secondo calcoli spannometrici, sono finiti all’estero per i timori, fortunatamente infondati, che l’Italia potesse uscire dall’euro. Il compromesso raggiunto in extremis con la Commissione europea ha in ogni caso partorito una Legge di bilancio che destina larga parte delle risorse in deficit a interventi redistributivi di natura assistenzialistica, alza la pressione fiscale complessiva e taglia gli investimenti pubblici – del 'grande piano' per rilanciare quelli infrastrutturali e di manutenzione del territorio siamo ancora in attesa – penalizzando al contempo le grandi imprese.

Il dato preliminare sul Pil del quarto trimestre diffuso ieri dall’Istat indica una crescita acquisita per il 2019 pari al -0,2%: difficile che il 'moltiplicatore' dei consumi legato al Reddito di cittadinanza e l’ipotetica staffetta generazionale innescata da quota 100 possano garantire, come ha dichiarato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte al Forum di Davos, un Pil addirittura all’1,5%. Una revisione dei saldi nel prossimo Def e una manovra correttiva sono pertanto sempre più probabili, considerata l’ipoteca accesa con le nuove clausole di salvaguardia sui conti pubblici per l’esplosione della spesa corrente senza copertura, a fronte di un Prodotto interno lordo ben più magro, prevista nel 2020.

C’è ancora tempo per intervenire. Poco, ma c’è. Richiede però un radicale cambio di passo. A partire dalla visione e dallo stile di governo, che da conflittuale e in lotta con tutti dovrebbe diventare collaborativo. Da respingente farsi inclusivo. Qualità dell’azione politica e livello di incertezza presso gli investitori, le imprese e i consumatori sono strettamente correlati: il continuo addebitare le responsabilità agli altri, la costante ricerca di capri espiatori e manovre (politiche) diversive per guadagnare consenso come la fantomatica emergenza migranti o gli attacchi nazionalistici a Paesi partner alimentano solo la confusione, rappresentano giustificazioni e alibi controfattuali che per un po’ possono anche gonfiare il consenso, ma minano nel profondo la credibilità. La ricerca più recente ha confermato del resto che le determinanti prossime di ordine economico della crescita sono a propria volta riconducibili a concause più remote di natura meta-economica.

La sovrastruttura, cioè, il clima istituzionale, politico e sociale, retroagisce fortemente sulla struttura. Con altre parole lo diceva già Luigi Einaudi: «Chi cerca rimedi economici a problemi economici è sulla falsa strada». Aggiungendo: «Il problema economico è l’aspetto e la conseguenza di un più ampio problema spirituale e morale». Il rischio vero per l’Italia, allora, è che la recessione economica si accompagni a una ben più grave regressione sociale. E viceversa.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: