Non scorciatoia ma saggio recupero dei capisaldi
venerdì 17 luglio 2020

Caro direttore,
dei problemi della giustizia penale si sta occupando chiunque tranne coloro che vi dedicano l’impegno della ricerca scientifica. Il caso dei magistrati è clamoroso. Sotto ogni maggioranza parlamentare hanno conquistato i vertici dei dicasteri, degli uffici legislativi e delle commissioni ministeriali di riforma dell’ordinamento penale. Costanti le apparizioni sui media. Magistrati ovunque, insomma, con la giustificazione delle elevate capacità professionali e dell’importanza sociale del ruolo. Gli studiosi universitari sono stati emarginati con uno slogan suggestivo: sono soltanto dei teorici che non conoscono la fatica dell’indagare e del sentenziare; i loro insegnamenti vengono dimenticati perché inadatti ad affrontare la realtà.

Il contributo degli avvocati è a sua volta disprezzato poiché 'inquinato' dagli interessi di clienti magari malfamati. Il magistrato coniuga invece molteplici qualità: la competenza del giurista, la dimestichezza con la pratica giudiziaria, la purezza derivante dallo status. Viene tuttavia il momento di rendere il conto del proprio operato. Che l’ora fatale sia giunta è dimostrato dalle vicende riguardanti la magistratura associata al centro in questi mesi delle cronache. Quanti e quali benefici ha tratto l’organizzazione della giustizia penale da decenni di supremazia della magistratura? Con ogni evidenza, nessuno.

Non si scorge l’ombra del processo giusto e di durata ragionevole, voluto dalla Carta costituzionale. Predomina piuttosto il rumore assordante delle indagini infinite, lo sferragliare della lotta alla criminalità nella quale il giudice è immischiato al pari del pubblico ministero, perdendo l’imparzialità. Il dramma è che la vantata esperienza nel condurre inchieste e processi spinosi si risolve spesso nella elusione delle regole prescritte dalla legge e nell’aperta sconfessione dei princìpi costituzionali. Il codice di rito è stato deturpato da modifiche che l’hanno reso illeggibile, moltiplicando le eccezioni legate all’accertamento dei delitti di criminalità organizzata, e neutralizzato da interpretazioni giurisprudenziali orientate al massimo risultato per le istanze punitive. Ma non è bastato.

Non sapendo come giustificare il fallimento, alcuni pensano di convincere il popolo cresciuto leggendo 'I Promessi sposi', anziché la 'Storia della colonna infame': gli avvocati cavillano come l’azzeccagarbugli del romanzo; profittano dell’eccesso di garanzie che ingolfa il sistema; trovano nelle norme, scritte da astuti delinquenti camuffati da legislatori, vie oblique per guadagnare l’impunità ai loro assistiti. Possibile che in tanti anni al servizio delle istituzioni i magistrati non siano riusciti a cambiare le cose? Qualche ostacolo deve avere di certo impedito di completare l’opera intrapresa: sbarazzarsi di un codice di procedura penale - questo pensano in molti - concepito a vantaggio dei colpevoli, così da impersonare essi stessi la regola. Parte della magistratura ha contribuito a diffondere parole d’ordine velenose.

Qualcuno si è addirittura specializzato in un genere prossimo all'avanspettacolo, ripetendo battute penose: l’argenteria trovata nelle tasche dell’ospite dal vicino di casa, che l’aveva invitato a cena, è circostanza sufficiente a bandire il colpevole dal consorzio civile. Mentre la presunzione di innocenza, scolpita nella Costituzione, esige un accertamento della responsabilità penale che verifichi nel contraddittorio il punto di vista del testimone, fosse pure la polizia che procede all’arresto in flagranza di reato, scongiurando l’errore e smascherando la menzogna. Concetti elementari che sono andati smarriti. Così un alto magistrato può mettere da parte con disdegno le questioni giuridiche e proclamare che, della scarcerazione degli impu-tati, importa «come la leggono i cittadini»; anziché spiegare con pazienza che la Costituzione pretende termini massimi di durata della custodia in carcere prima della condanna. Il ragionamento è infatti complesso e non va tralasciato.

L’inosservanza delle regole da parte dei pubblici ministeri, spesso tollerata dai giudici di merito, ha un costo elevato per il sistema. Gli studenti del corso di procedura penale sapevano da anni - ad esempio - che la contestazione dell’aggravante mafiosa alle consorterie romane era mossa arrischiata, con formidabili effetti immediati per l’accusa, ma di improbabile conferma all’esito del processo. Così come sanno che l’ostinazione a trattenere presso un determinato ufficio procedimenti penali destinati ad altro giudice, violando le norme sulla competenza, porterà all’annullamento in Cassazione, con inutile perdita di tempo. Sbaglierebbe chi pensasse che a questi fenomeni siano estranei l’assetto della magistratura, il rapporto tra giudici e pubblici ministeri, la formazione dei magistrati e la guida delle riforme della giustizia penale. Come uscirne? Il discorso è a sua volta complicato, ma ha un presupposto irrinunciabile. Occorre lasciarsi alle spalle le scorciatoie tentate in questi anni, all’insegna di un’efficienza della giustizia perseguita senza il sostegno del pensiero scientifico. Il rispetto dei vincoli costituzionali e la cogenza delle norme previste dal codice di procedura penale quello lineare e uniforme delle origini - sono i due capisaldi dai quali ripartire, poiché entrambi esprimono valori non improvvisati o in balìa delle correnti.

Ordinario di Diritto processuale penale e direttore del Dipartimento di Giurisprudenza Università di Ferrara

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