Giusta chiarezza sulla morte inflitta
mercoledì 27 giugno 2018

Qualche volta i magistrati riescono a precisare i limiti applicativi delle leggi. Così in una recente sentenza della Corte di Cassazione in tema di eutanasia. Avvenire ne ha dato opportunamente conto, mentre altri mezzi di informazione hanno passato la cosa sotto silenzio. Forse a causa dell’apparente 'banalità' del tema in giudizio.

Infatti, con la sentenza 26899/2018 la Suprema Corte è intervenuta 'soltanto' per respingere il ricorso di una anestesista contro la misura cautelare di divieto di espatrio impostole dal Gip del Tribunale di La Spezia e confermata dal Tribunale di Genova in funzione di giudice del riesame. La dottoressa è sotto processo per aver provocato la morte del fratello con notevole anticipo rispetto a quanto la sua malattia faceva ipotizzare.

L’eutanasia sarebbe stata praticata su persona non informata né consenziente, utilizzando la propria competenza professionale e la facilità di accesso ai farmaci. Il divieto di espatrio è stato motivato dal pericolo di reiterazione del reato (i giudici, sulla base di registrazioni telefoniche, sospettano altri analoghi interventi da parte dell’imputata) e dal radicato inserimento all’estero dell’imputata che lasciava temere la volontà di andare a lavorare fuori dei nostri confini per sottrarsi all’espiazione della pena eventualmente comminata dalla giustizia italiana.

L’interesse della sentenza della Cassazione è solo in parte per la conferma del divieto di espatrio, perché risiede soprattutto nelle definizioni in essa contenute. A sua difesa l’imputata sosteneva, infatti, non essersi trattato di eutanasia, ma di sedazione profonda. La Cassazione ha voluto ribadire la distinzione tra le due condotte, ricordando che «per eutanasia, secondo classica e condivisa definizione, s’intende un’azione od omissione che ex se procura la morte, allo scopo di porre fine a un dolore.

La sedazione profonda, invece, è ricompresa nella medicina palliativa e fa ricorso alla somministrazione intenzionale di farmaci, nella dose necessaria richiesta per ridurre, fino ad annullare, la coscienza del paziente, per alleviarlo da sintomi fisici o psichici intollerabili nelle condizioni di imminenza della morte con prognosi di poche ore o poco più, per malattia inguaribile in stato avanzato e previo consenso informato».

Queste poche righe meritano grande attenzione, anzitutto perché riveste un grande significato nel contesto del dibattito italiano il fatto che i giudici affermino che non esiste solo l’eutanasia attiva, ma anche quella omissiva, ribadendo implicitamente che ciò che qualifica l’atto eutanasico è l’intenzione di affrettare la morte del paziente. Essi tuttavia vanno oltre, precisando che la sedazione profonda non può trasformarsi in eutanasia, ma deve restare nell’ambito delle cure palliative. Perché ciò si verifichi si richiede non solo il consenso del paziente (che potrebbe esserci anche per l’eutanasia), ma di essere di fronte a una malattia inguaribile in stato avanzato e, soprattutto, in una condizione di morte imminente.

Questa interpretazione, mirante a impedire ogni uso della sedazione profonda al di fuori delle cure palliative, consente di precisare utilmente l’orizzonte temporale di applicazione anche per la legge su consenso informato e Dat. La legge 219/2017, infatti, consente la sedazione terminale «nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte», con una equivoca e pericolosa distinzione tra le due situazioni che sembrerebbe andare in direzione di una impropria estensione del concetto di malato terminale.

La Cassazione opportunamente precisa che l’imminenza di morte si ha solo «con prognosi di poche ore o poco più». Se così è, nessuno dovrebbe poter mascherare con la sedazione profonda l’anticipazione indebita della morte di un paziente con aspettativa di vita di giorni o settimane, benché affetto da malattia a prognosi sicuramente infausta, per esempio oncologica. Nessuno, inoltre dovrebbe poter coprire con la sedazione profonda le sofferenze prodotte dalla sospensione dei sostegni vitali in un paziente, per esempio in stato vegetativo, che non sta morendo della sua malattia. Senza la sedazione profonda, la sospensione dei sostegni vitali in tali pazienti riacquista tutta la sua brutalità, configurandosi per ciò che realmente è: non morte dignitosa, ma disumana eutanasia omissiva.

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