sabato 10 gennaio 2009
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Ora che la crisi economica ha pre­so a mordere interi comparti pro­duttivi, sulle comunità rischia d’ab­battersi una nuova povertà. Molte fa­miglie dai redditi modesti, ma anche di ceto medio, potrebbero infatti non reggere l’urto finale della perdita del lavoro o anche solo della riduzione del­le entrate dovuta alla messa in cassa integrazione. Innescando così un drammatico effetto-domino fatto di bollette non pagate, rate di mutuo sal­tate, pignoramenti, impossibilità di mantenersi. In un crescendo di disagio sociale che non può lasciare indiffe­renti né le istituzioni né la società. E che è da tempo oggetto di crescente attenzione da parte della Chiesa. Diciamolo subito: non sono poche le iniziative di contrasto alla povertà, at­tivate nel corso dei decenni: accanto a strutture più visibili come le mense della Caritas sta un tessuto davvero ca­pillare di centri d’ascolto sparsi nelle parrocchie, nei quali viene svolto un la­voro tanto discreto quanto prezioso. Una rete di volontari che agisce sul ter­ritorio offrendo anzitutto ascolto, in­dirizzando, educando le persone a un corretto stile di vita economico. Ca­pace di assicurare nel contempo una serie di aiuti concreti: dai pacchi ali­mentari al pagamento delle bollette, dai contributi a fondo perduto al mi­crocredito. Purtroppo, però, è già og­gi evidente che tutto questo 'patri­monio' rischia di non bastare, come dimostra il caso della diocesi di Rimi­ni, 'travolta' dall’incremento delle ri­chieste d’intervento, dopo aver distri­buito 2 milioni di euro di micropresti­ti negli ultimi anni. Certo, altro anco­ra si potrà – e si dovrà – fare solleci­tando la solidarietà dei cittadini e cer­cando di mobilitare a questo scopo primario risorse normalmente desti­nate ad altre attività della Chiesa stes­sa. L’iniziativa dell’arcidiocesi di Mila­no di creare un nuovo fondo di soli­darietà testimonia una volontà che si muove in questa direzione. Lo stesso dicasi per Prato. Fin da ora, però, occorrerebbe riflettere su come moltiplicare questi aiuti, in­canalarli correttamente e soprattutto come sia possibile operare in sinergia tra enti pubblici, comunità ecclesiale e volontariato laico. Se è vero, infatti, che ruoli e compiti sono distinti, non di meno la crisi impone a livello terri­toriale di unire forze, risorse e intelli­genze. Nell’aiuto ai poveri il know­how, il 'saper fare', conta non meno che in un’impresa. Essere presenti sul campo da decenni nell’ascolto dei bi­sogni delle famiglie, aver verificato centinaia di migliaia di casi, saper di­stinguere pure chi necessita anzitutto di mutare comportamenti di spesa, non sono capacità che si improvvisa­no. Sarebbe un vero 'delitto', invece, se gli aiuti pubblici, già limitati, finis­sero dispersi nelle pastoie burocrati­che, bloccati dalla necessità di rispet­tare questo e quel criterio, produrre questo e quel documento. Come di­mostra la tormentata vicenda della so­cial card, la burocrazia è la prima ne­mica dei poveri. La solidarietà – a maggior ragione quel­la esercitata dallo Stato – non può in­fatti esprimere l’intera sua potenzia­lità se prescinde dalla sussidiarietà. Dalla valorizzazione, cioè, di quei cor­pi intermedi che sono più vicini alle realtà di bisogno. Ecco perché sarebbe necessario attivare subito tavoli di con­fronto nei diversi territori, mettendo insieme enti locali, realtà non profit, caritas e parrocchie. E senza nulla to­gliere all’assistenza pubblica, che ha propri obblighi e destinatari, pensare a come gli stessi enti locali – in una cor­nice condivisa di criteri di controllo – possano contribuire assieme alle co­munità cristiane e ai gruppi di volon­tariato a tene re in piedi le tante tesse­re traballanti, che altrimenti rischiano di far crollare il domino del Paese.
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