Eredi del lembo del mantello
sabato 10 marzo 2018

È ben difficile trovare in tutta la Bibbia un solo personaggio, giusto o ingiusto, che non sia stato smentito da Dio, tranne forse Abramo e Gesù. Ma proprio da queste smentite l’uomo di fede impara a dubitare di ogni istituzione che non si lasci contraddire

Paolo De Benedetti, I profeti del re

Dopo la consacrazione da parte di Samuele, Saul inizia a svolgere la sua missione di re guerriero, un inizio che segna la sua tragica sorte, narrata in pagine tra le più avvincenti e belle di tutta la Bibbia: «I Filistei si radunarono per combattere Israele, con trentamila carri e seimila cavalieri. (...) Saul restava a Gàlgala, e tutto il popolo che era con lui s’impaurì. Aspettò tuttavia sette giorni per l’appuntamento fissato da Samuele. Ma Samuele non arrivava a Gàlgala e il popolo cominciò a disperdersi lontano da lui. Allora Saul diede ordine: "Portatemi l’olocausto e i sacrifici di comunione". Quindi offrì l’olocausto» (1 Samuele 13, 5-10).

Nel giorno della sua unzione a re, Samuele gli aveva detto: «Scenderai a Gàlgala, precedendomi, ed ecco, io ti raggiungerò per offrire olocausti. Sette giorni aspetterai"» (10, 8). Passano sette giorni, Samuele non arriva, il popolo ha paura e si disperde. Saul decide così di offrire lui stesso a YHWH il sacrificio perfetto di comunione (l’olocausto). Subito dopo, «giunse Samuele, e Saul gli uscì incontro per salutarlo. Samuele disse: "Che hai fatto?"» (13,11). Saul risponde: «Ho detto: "Ora scenderanno i Filistei contro di me a Gàlgala, mentre io non ho ancora placato il Signore". Perciò mi sono fatto ardito e ho offerto l’olocausto» (13, 12). Saul aveva atteso i giorni indicati da Samuele, non aveva quindi agito fuori dalle indicazioni ricevute. Eppure Samuele lo rimprovera con una durezza inattesa e sorprendente: «Hai agito da stolto, non osservando il comando che YHWH ti aveva dato». E conclude: «Ora il tuo regno non durerà» (13, 13-14).

Inizia qui a disvelarsi il tristissimo destino del primo Re di Israele. Nella sua storia si trovano intrecciate molte tradizioni e teologie. Tra queste, non ultima per importanza, la critica radicale che l’autore dei Libri di Samuele fa alla nascita della monarchia, che diventa immediatamente uno sguardo critico sul suo capostipite - ogni critica radicale è sempre una critica archeologica che mette in discussione la radice, il suo principio originario (arché). In questa storia ci sono però altre ragioni profonde e cariche di significati etici di grande importanza, che si svelano meglio se leggiamo questa prima narrazione della crisi tra Saul e Samuele insieme al secondo racconto sugli Amelekiti, ancora più forte e drammatico.

Innanzitutto, è bene parlare di "crisi" e non di conflitto tra questi due grandi personaggi. Saul, infatti, non "combatte" con Samuele, né in tutta la gestione di questa crisi tremenda mette mai in discussione l’autorità di Samuele. Mostra, invece, una grande mitezza nei suoi confronti, invoca misericordia per i suoi errori, offre spiegazioni per i suoi comportamenti, atti e sentimenti che non possono non catturare la simpatia di noi lettori. È, infatti, retoricamente molto interessante che leggendo questi racconti con la solita necessaria ignoranza che dovrebbe accompagnare ogni lettura feconda della Bibbia (e dei grandi testi) - leggere cioè ogni brano come fosse la prima volta - ci si ritrova spontaneamente condotti dalla narrazione dalla parte di Saul e in un contrasto emotivo con Samuele. E in questo contrasto narrativo che si crea tra Saul condannato da YHWH e salvato dal lettore, sta molta della bellezza di questi capitoli, che svelano, tra l’altro, l’infinito talento letterario dell’autore.

Dopo le gesta belliche di Jonatan, figlio di Saul (cap. 14), troviamo un nuovo comando che Samuele rivolge a Saul: «Così dice il Signore degli eserciti: "Ho considerato ciò che ha fatto Amalèk a Israele, come gli si oppose per la via, quando usciva dall’Egitto. Va’, dunque, e colpisci Amalèk, e vota allo sterminio totale quanto gli appartiene; non risparmiarlo, non avere pietà, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini"» (15, 1-4).

Pagina tremenda, che ci obbliga a cercare chiavi di lettura più profonde per non associare la Bibbia alla nostra violenza - è Dio il primo che ha bisogno dell’esegesi della Bibbia e dei testi sacri delle religioni, se non vogliamo continuare a "uccidere i bambini" nel Suo nome: con queste pagine bibliche, YHWH ha bisogno del nostro studio per poter dire "non nel mio nome". Innanzitutto, Amalek e il suo popolo (gli Amalekiti) sono noti al lettore biblico, perché nel deserto combatterono Israele per impedirgli di raggiungere Canaan. Il nemico più grande, quello che si era opposto all’avveramento della promessa. Quindi è immagine del male assoluto, icona biblica di ogni idolatria. Come il faraone, come l’Egitto. E questa è già una prima diversa ermeneutica della richiesta sconvolgente di Samuele. I figli degli Amalekiti sono immagine dei "figli" degli idoli, come lo erano i figli degli egiziani, che non potevano essere i bambini "in carne e ossa" fatti nascere dalle levatrici che quello stesso loro Dio benedisse per aver salvato i bambini degli ebrei, dando loro «una numerosa famiglia» (Esodo 1, 19-20). Ecco allora che alla fine del racconto, Samuele menziona esplicitamente l’idolatria: «Sì, peccato di divinazione è la ribellione, e colpa e terafìm [idoletti] l’ostinazione» (15, 23).

Ma Saul non esegue alla lettera l’ordine di Samuele-YHWH, perché risparmia Agag, il re degli Amalekiti e «il meglio del bestiame minuto e grosso» (15, 9). Nell’economia del racconto a questa disubbidienza di Saul viene attribuito un valore enorme: «Mi pento di aver fatto regnare Saul, perché si è allontanato da me e non ha rispettato la mia parola» (15, 10-11). Samuele si adira - dal testo non si capisce se con Dio o con Saul (o con entrambi?) - e subito si reca da Saul, che lo accoglie e gli dice: «Benedetto tu sia dal Signore; ho eseguito gli ordini di YHWH» (15, 13). La frase di benvenuto di Saul tradisce la sua buona fede (15, 20-21). Ma Samuele ribadisce il verdetto: «Poiché hai rigettato la parola del Signore, egli ti ha rigettato come re» (15,23). La tensione tragica ha raggiunto il suo culmine. Saul, il prescelto, rigettato da chi lo aveva scelto (15, 26). E aggiunge ancora: «Il Signore gradisce forse gli olocausti e i sacrifici quanto l’obbedienza alla voce del Signore?» (15,22). Nel rigetto di Saul e nel suo "salvare una parte", ci può essere qualcosa di più diverso della polemica anti-idolatrica e anti-sacrificale dei profeti, che pur c’è.

Quando si riceve un compito da una voce - di Dio o della coscienza - che ci parla con chiarezza, non siamo noi a dover decidere quale parte eseguire. In ogni compito etico ci sono elementi che ci piacciono e altri che non amiamo o odiamo. Se lasciamo fuori la parte che non ci piace, ci stiamo trasformando nei padroni della voce, e ci perdiamo. Perché in quella parte che abbiamo deciso di scartare si nasconde qualcosa di essenziale, che, se non eseguito, inficia tutto il resto. Il destino o si compie o non si compie, non è possibile compierlo in parte. Ecco perché la maggior parte delle vocazioni non riescono a fiorire in pienezza, perché quando arriva il momento nel quale occorre scegliere di svolgere quella parte che non amiamo o che odiamo, quasi sempre facciamo la scelta di Saul. La vocazione di Saul era stata una vocazione vera, non un errore di Dio né di Samuele (anche i tre racconti diversi della sua unzione ce lo dicono). Ma la vocazione di una persona è solo l’alba di un destino, e che cosa accadrà durante l’intero giorno dipenderà dalla capacità di fedeltà ai compiti morali che non ci piacciono e che abbiamo buone ragioni per non amare. Molte di queste scelte parziali sono fatte per pietas e in buona fede, come sembra essere Saul. Ma la buona fede non basta per salvare una vocazione - come ci ricorda Geremia, anche tra i falsi profeti ce ne sono molti in buona fede.
Potremmo fermarci qui, soddisfatti di questa lettura diversa di queste pagine tremende. Ma è anche possibile tentare di addentrarci su vette ancora più ardite e scivolose, perché sono queste che, spesso, aprono gli orizzonti più larghi.

Il testo ci mostra Saul come un uomo che ascolta il profeta, e come un uomo intero e giusto, che se sbaglia lo fa in buona fede e per ragioni ascrivibili alla pietas e forse alla debolezza. Ma Dio lo rigetta. Qui allora si apre un discorso antropologico importante per tutte le vocazioni. Al loro cuore si pone un mistero, fatto anche di un lato buio. Insieme alle vocazioni di Abramo, Geremia, Isaia, Samuele, Noè, qui la Bibbia con Saul ci dona un altro "paradigma" di vocazione, che con le altre ha in comune l’incompiutezza e la parzialità (dove si trovano la loro piena e compiuta bellezza). Quella di chi ha ricevuto una autentica vocazione, ha cercato di viverla in buona fede, ma non è riuscito a compierla. Una vocazione vera può "andare a male" senza che lo vogliamo né lo meritiamo. In ogni vocazione è iscritta la possibilità della sua tragedia, perché è un patto di reciprocità.

E nei patti dipendiamo radicalmente dagli altri, dal loro cuore, dal loro pentimento, dalla loro lettura del nostro cuore. Il compimento del nostro matrimonio non dipende solo dalla nostra buona fede, il successo della nostra impresa non dipende solo dal nostro impegno. La fioritura del nostro patto con Dio dipende anche da come "diventerà" domani quella voce che abbiamo ascoltato oggi e alla quale abbiamo creduto con tutto il cuore - non posso dire se cambi Dio, ma certamente crescendo cambia voce. Saul, uomo buono, probabilmente in buona fede, ma rigettato e sconfessato da quel Dio e dal quel profeta che lo avevano chiamato mentre cercava le "asine smarrite", che divenne re per vocazione senza volerlo né cercarlo, è allora immagine di tutti coloro che seguono onestamente una voce e che non raggiungono la terra promessa pur essendo stati e restati buoni.

Anche le vere vocazioni, anche i buoni, possono smarrirsi - come quelle asine che Saul non ritrovò. Un altro Saul, mille anni dopo poté scrivere con coraggio che «le promesse e i doni di Dio sono irrevocabili» (Rm 11, 29) forse perché portava iscritta nel suo stesso nome l’auto-sovversione di quella tesi.

Saul cercò con tutte le sue forze di riconciliarsi con la sua vocazione e con il proprio destino. Afferrò Samuele per convertirlo, per fargli cambiare direzione e cuore, ma non vi riuscì: «Samuele si voltò per andarsene, ma Saul gli afferrò un lembo del mantello, che si strappò» (15, 27). Le vocazioni vere, quelle in carne ed ossa, sono varianti dell’incompiuta di Saul. Lottiamo tutta la vita per non smarrire il nostro destino, e alla fine ci resta in eredità un "lembo del mantello" stracciato del profeta, che ci lascia da adulti dopo che ci aveva chiamato da giovani.

Come Mosè, che aveva parlato bocca-a-bocca con un Dio che alla fine della vita non lo fece entrare nella terra promessa. Ma se Saul e Mosè e gli altri profeti sono abitanti di una terra diversa da quella promessa, allora la nostra terra parziale e incompiuta è un buon luogo dove poter porre la nostra tenda nomade.

l.bruni@lumsa.it

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