giovedì 19 febbraio 2009
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La Cassazione ha annullato la con­danna al giudice che non voleva il crocifisso in aula? Data in questi ter­mini la notizia è a dir poco ambigua. In realtà la Cassazione ha «annullato senza rinvio perché il fatto non sussi­ste » la condanna che la Corte d’Ap­pello dell’Aquila aveva pronunciato nei confronti di un giudice perché questi, a causa della presenza in aula del crocifisso, si era rifiutato di svol­gere le sue funzioni. Dunque la con­danna prima e l’annullamento poi nulla hanno a che vedere con la que­stione dell’esposizione del simbolo re­ligioso nelle aule dei Tribunali, ma ri­guardano il fatto se il rifiuto del giudi­ce integri o meno i reati di interruzio­ne di pubblico servizio e di omissione di atti di ufficio. Come sempre, bisognerà attendere il deposito della sentenza per conosce­re le ragioni in base alle quali la Cas­sazione, disattendendo il parere del­l’accusa, non ha ravvisato nel caso neppure un turbamento dell’attività giudiziaria. Di primo acchito lascia sorpresi che il rifiuto di soddisfare il proprio ufficio, che è ufficio eminen­temente pubblico, e per ragioni di per sé ininfluenti sull’esercizio della fun­zione giudicante, non configuri alcu­na ipotesi di illecito penale. Anche per­ché il caso specifico è del tutto parti­colare, atteso che l’esercizio della giu­risdizione da parte dei giudici esprime un potere dello Stato, dinanzi al qua­le c’è una domanda di giustizia costi­tuzionalmente garantita, che non può rimanere inevasa, per giunta per mo­tivi del tutto personali. Per ragioni personali ben più rilevan­ti la Corte costituzionale ha più volte affermato che, quali che siano le ispi­razioni etiche o religiose della co­scienza del giudice, questo non può rifiutarsi di rendere giustizia. Ma attendiamo la sentenza. La que­stione però è tutt’altro che conclusa. È infatti aperto nei confronti del ma­gistrato un procedimento disciplina­re davanti al Consiglio superiore del­la magistratura, e da questo punto di vista almeno colpiscono le dichiara­zioni riportate dalla stampa, secondo cui lo stesso si rifiuterà di tenere u­dienza ogni qual volta si troverà di fronte un simbolo della religione cat­tolica. Pare assai grave, infatti, che chi è addetto a far osservare le norme pubblicamente dichiari di non voler­ne osservare qualcuna, fosse pure u­na soltanto. E le norme sull’esposi­zione del crocifisso non solo sono vi­genti, ma sono sin qui passate anche al vaglio della magistratura ordinaria e amministrativa. Resta il problema di sostanza: viola la laicità dello Stato l’esposizione del cro­cifisso? È chiaro, lo si è detto più vol­te, che si tratta di un simbolo che ha per tutti una forte valenza storica, cul­turale, identitaria, perché non c’è dub­bio che esista una identità italiana e che questa sia stata forgiata dal catto­licesimo; identità che non può essere cancellata, anche se lo si volesse, così come non si possono cancellare la Di­vina Commedia o gli affreschi di Giot­to. Identità di un popolo che deve es­sere forte e coltivata, se si vogliono af­frontare pacificamente le sfide di una società multiculturale, qual è quella che sta divenendo l’Italia. Eppoi rimane quel monito saggio e forte di Natalia Ginzburg, per cui se per i credenti Gesù Cristo è il Figlio di Dio, per gli altri «può essere sempli­cemente l’immagine di uno che è sta­to venduto, tradito, martoriato ed è morto sulla croce per amore di Dio e del prossimo » . Pare davvero strano che proprio nelle aule giudiziarie, do­ve solitamente giunge una umanità sofferente, qualcuno voglia estromet­tere il simbolo per eccellenza di amo­re, di solidarietà, di perdono. Colpiva ieri ascoltare questa stessa te­si annunciata dai microfoni di Radio Radicale. Qualcosa si smuoverà?
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