mercoledì 17 maggio 2023
Il Mezzogiorno sta conoscendo una fase di cambiamento con caratteristiche inedite per fattori demografici. L’ambizione dei fondi del Pnrr non basta a frenare l’emorragia delle zone interne
L’emigrazione dei giovani, unita alla crisi demografica, impoverisce il Sud d’Italia

L’emigrazione dei giovani, unita alla crisi demografica, impoverisce il Sud d’Italia - Ansa

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Trasloco in corso. Il Mezzogiorno non abita più qui, si trasferisce altrove, al nuovo indirizzo di una “via dello sviluppo”, passata sempre alla larga dai suoi territori e ora forse rintracciabile, in altri luoghi, nelle terre sparse di un Sud senza più confini. Potrebbe essere questo il triste e paradossale epilogo di una storia costruita intorno all’ordinaria contraddizione di una terra sempre in bilico tra un atavico immobilismo e le ripetute e velleitarie fughe in avanti. Il tempo è questo per una verifica a tutto campo dalla quale può dipendere molto in chiave futura. Il Mezzogiorno va dove lo porta il lavoro. È sempre avvenuto così, e la lunga scia di migranti resta ancora la traccia più attendibile per entrare nel vivo della sua storia. Si partiva con le valigie di cartone sui treni della speranza verso i centri del triangolo industriale e, ai primi del XX secolo, nell’epoca delle trasmigrazioni oceaniche a bordo di bastimenti diretti in terre assai lontane, un po’ di Sud è andato dappertutto, inseguito passo passo da analisi sociologiche puntate soprattutto sui luoghi di arrivo che mettevano sotto osservazione la qualità dell’accoglienza, le nuove condizioni di vita, la non sempre facile integrazione in un altro tessuto sociale. Guardare all’indietro, a ciò che si lasciava alle spalle non è stata, per molto tempo, una pratica diffusa. Per molti i paesi d’origine del Mezzogiorno sono così diventate le “seconde case” un po’ trascurate e frequentate principalmente d’estate, nelle ricorrenze patronali, vere e proprie feste comandate dell’emigrazione più classica.

Ma viene poi il momento in cui non solo il paese e il circondario con tutto il paesaggio intorno arriva a presentare il conto delle troppe valigie ammassate e di viaggi che tutti insieme son diventati un esodo, fino a lasciare vuote non solo le case ma le piazze, le scuole, i bar, i ritrovi, infine la vita di una comunità letteralmente spaesata e smarrita. Arriva il momento, ed è questo, che dei cambiamenti occorre non solo prendere atto ma piuttosto prendere nota, per tracciare il profilo giusto di una terra che non è mai la stessa. Il Sud è stato sempre un bersaglio mobile, ma nessuna condizione più di quella attuale presenta uguali rischi e incertezze. Un paradosso rende più rischioso questo passaggio, l’impatto dei grandi investimenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Piano - Marshall nell’era della globalizzazione. Quale Sud si appresta a ricevere la massa di finanziamenti? È la prima domanda da porsi di fronte a un territorio con oltre 20 milioni di abitanti, l’area d’intervento più popolata della zona euro. Una domanda di cui non si ha traccia in questo avvio affannato e anche un po’ caotico. La natura dei finanziamenti mette in campo, in tutte le sei “missioni” in cui il piano è suddiviso, grandi opere e quindi anche tempi prevedibilmente lunghi. E lunghi abbastanza, una volta messi “a terra”, da far temere che potranno andare a realizzarsi su realtà e condizioni nel frattempo mutate.

Una variabile di grande peso – il calo delle nascite – ha appena fatto irruzione scompaginando non poco un quadro di per sé mai stabile. I grafici sull’andamento demografico proiettano già oggi la fisionomia di una società meridionale sempre più omologata, in questo campo, al resto del Paese. Il fenomeno delle culle vuote (già seimila nati in meno, rispetto ai 400.249 dell’anno precedente, nei primi sei mesi del 2022) va in controtendenza solo in due regioni, la Campania e la Calabria, rispettivamente con 1.200 e 350 nati in più rispetto al 2021. Per il resto si tratta di dati che, proiettati in un medio periodo, prefigurano non semplici mutamenti ma assetti sociali totalmente diversi. Con i giovani costantemente sul piede di partenza, la popolazione di tutto il Mezzogiorno, nei prossimi 50 anni, sarà significativamente più vecchia rispetto a quella del Nord e del Centro. Il calo delle nascite sta accelerando i tempi di questa ulteriore trasformazione i cui segni sono già visibili. Invecchia, con il territorio, anche la mappa dei problemi e delle esigenze. E quando non invecchia, aggiorna i termini di situazioni modificate spesso dalla progressiva deriva, anzi dalla vera e propria usura, delle realtà in campo.

La denatalità si appresta così a diventare la vistosa ruga in più che solca tutta intera la fisionomia di un Mezzogiorno sempre più identificato come la terra della modernità senza sviluppo o di una modernità malata, se si pensa all’assedio mai domato – seppure contrastato con vigore dalle giovani generazioni – della criminalità organizzata. Le culle vuote e la mancanza di lavoro, soprattutto per i giovani e le donne, sono i due grandi indici, non estranei l’uno all’altro, che ruotano sullo stesso quadrante di problemi. C’è un piccolo mondo antico, nel cuore del Mezzogiorno, che può aiutare a capire, proprio nell’epoca della globalizzazione, la dinamica e le prospettive delle realtà in corso. Con una progressione sempre più spinta la popolazione del Mezzogiorno, negli ultimi decenni ha letteralmente cambiato casa, lasciando le zone interne, i “paesi dell’osso” – secondo la definizione del meridionalista Guido Dorso – lungo l’Appenino, per trasferirsi a “valle”, il primo e più vicino insediamento dove trovare più occasioni di lavoro e una più completa rete di servizi. A conti fatti, un fallimento su un doppio fronte. Nei centri a valle il Sud ha continuato a scontare i suoi ritardi rispetto al resto del Paese, tanto che l’emigrazione di un tempo ha cambiato solo forma, accentuando il carattere di una vera e propria “fuga di cervelli”. A trascinare per il mondo i trolley con i laptop inseparabili sono stati i giovani di una generazione digitale che, nel segno della virtualità, ha permesso di colmare e annullare d’un tratto, anche i ritardi del passato. Di start-up e progetti del mondo digitale è stata lastricata sin dall’inizio la strada di un Mezzogiorno a guida giovanile, la leva dell’entusiasmo e delle competenze utilizzata come punto di appoggio per un nuovo slancio che tuttavia è andato a realizzarsi in gran parte altrove. Erano un tempo piene le fabbriche di operai meridiona-li, sono ora affollati di giovani del Sud – non solo in Italia – i laboratori dell’innovazione. È una sorta di Mezzogiorno altrove, che porta frutti solo lontano da casa.

L’altro fallimento, ancora più grave, riguarda il vuoto lasciato alle spalle, i paesi trattati come negozi con le saracinesche abbassate e il cartello virtuale – ma non troppo – della chiusura per “cessata attività”. «Mezzanotte a mezzogiorno » è il titolo di un drammatico documento elaborato, tre anni fa, da un gruppo di vescovi delle zone interne della Campania, presentato anche al capo dello Stato Sergio Mattarella, e nel quale si afferma che ogni anno l’equivalente di un paese intero viene a mancare per effetto della più dolorosa e infelice delle emigrazioni: quella dei giovani tra i 24 e i 39 anni, la fascia con il maggior numero di laureati ma che non sanno che farsene, sul posto, del proprio titolo di studio. Lasciare che i giovani partano è il modo più sicuro per impoverire il territorio e condannarlo a un progressivo abbandono. Le cifre non fanno sconti: solo in queste aree, piccole patrie di uno spopolamento sempre più diffuso, il Mezzogiorno ha perso un milione e duecentomila residenti, con una media di meno 2,5% ogni anno (la media nazionale è meno 1,6%). Un comune su tre continua a perdere sistematicamente popolazione.

La somma di queste partenze – un vero e proprio esodo – comincia a dare oggi un risultato diverso e più pesante: l’emigrazione dei giovani vale sempre più come un trasloco, anzi, una trasformazione del territorio, espropriato di una parte di vita attiva e sottoposto ai mutamenti, anche urbanistici, che ciò comporta. Su un terreno più ampio, l’emorragia delle zone interne prefigura un futuro analogo per l’intero Mezzogiorno. Se, naturalmente, anche il Pnrr si dovesse rivelare – e non sia mai – un’occasione fallita. Sulla vita grama delle aree interne e dell’esteso schieramento dei paesi dell’osso conviene allora addentrarsi a fondo, come al cuore dei problemi al quale trovare soluzioni. Del lungo e lento addio, dalla catena di altipiani alle valli, è utile distinguere anche le fasi. Prima del progressivo abbandono i “paesi dell’osso” erano stati anche illusi, particolarmente intorno agli anni Ottanta, da una forma di modernità posticcia che li aveva spinti a “mettersi in proprio”. Dagli anni Cinquanta fino al Duemila il loro numero era addirittura cresciuto: quasi cento in più rispetto ai 7.800 complessivi dell’ultimo mezzo secolo. Solo dal Duemila in poi, di fronte alle ricorrenti crisi e a uno spopolamento a vista d’occhio, ha cominciato a prevalere la necessità, oltre che la logica, delle fusioni. Quasi 150 le aggregazioni realizzate, ma restano 3.000 i territori a rischio estinzione in tutto il Paese.

Fusioni, aggregazioni. È questa anche la strada indicata dal Pnrr nei 10 obiettivi per lo sviluppo, e particolarmente alla “missione n.5” che riguarda l‘inclusione e la coesione. Punto centrale è proprio la riduzione del divario tra le diverse aree del Paese. Non si tratta di una sezione a sé: lo sviluppo, soprattutto al Sud, deve parlare molte lingue. Il primo silenzio da rompere è sul fronte del lavoro, dove il Mezzogiorno non può più rimanere indietro. A seguire, la filiera di tutto ciò che finora è mancato: la tutela del territorio, una rete di infrastrutture all’altezza, il sostegno al terzo settore, i beni culturali, il turismo... A conti fatti un investimento di 86 miliardi di euro, il 40% delle risorse complessive considerate dal Piano. Certo lo sviluppo non è solo questione di cifre. Ma questo il Mezzogiorno – a sue spese – già lo sa. La sua storia, un po’ in tutti i campi, è fatta proprio di conti che non tornano. Ma neppure questo è un buon motivo per non trovare la forza per ripartire.

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