giovedì 17 febbraio 2011
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Come in un inarrestabile effetto domino, le proteste popolari dilagano in tutto il Medio Oriente, dalle sue propaggini occidentali a quelle dell’Est. Dai grandi Stati con una matura società civile come l’Iran ai piccoli regni a gestione familiare come il Bahrein. Ora è la volta della Libia, ove vi sono state proteste e dimostrazioni contro il più che quarantennale governo del colonnello Gheddafi nella città di Bengasi, da sempre lontana – e non solo geograficamente – dal sistema di potere tripolino. Sorpresi dalla velocità con cui si è rimessa politicamente in moto tutta la sponda sud del Mediterraneo, politici e analisti occidentali sono ricorsi ad avventurosi paralleli storici con fasi rivoluzionarie precedenti, nel tentativo di capire ciò che non era stato previsto. Si cerca ora di immaginare verso quali approdi arriveranno i movimenti di protesta popolare e quanto politicamente diversa ci apparirà la costa meridionale del nostro mare passata la tempesta delle rivolte.Difficile fare previsioni, ma l’impressione è che la fragorosa e inaspettata caduta dei regimi tunisino ed egiziano abbia destato speranze e ambizioni di movimenti molto diversi fra loro, che sarebbe semplicistico interpretare in modo unitario. È intellettualmente scorretto e politicamente pericoloso leggere le proteste in Iran come simili a quelle nello Yemen o a Bengasi: nel primo caso, si tratta di un movimento riformista duramente represso nel 2009, mentre si opponeva pacificamente alla palese alterazione dei dati elettorali di una consultazione che quel movimento aveva probabilmente vinto. Negli altri casi, le rivalità tribali e la rabbia per l’esclusione dai meccanismi del potere sembrano forse prevalenti rispetto a mature richieste di democrazia. È evidente, comunque, come sia consunto il sistema di potere post-coloniale nel mondo mediorientale. Come un tessuto troppo liso e logoro, quando cede, cede di colpo: la mancanza di riforme, la gerontocrazia di regimi che avevano illuso i propri popoli all’indomani dell’indipendenza, le pressioni demografiche ed economiche unite alla corruzione rendono il sistema altamente instabile. Il che non significa che la sorte di tutti i governi sia segnata: a differenza di quanto avvenuto in Tunisia ed Egitto, infatti, in molti altri Stati le forze armate e di sicurezza sembrano pronte a sostenere con brutalità i propri governi. Ma l’effetto di questi cambiamenti si fa sentire anche in Occidente e soprattutto negli Stati Uniti, con la decisione della Casa Bianca di allontanarsi con nettezza dalle strategie di real-politik e di difesa dei regimi alleati, per sostenere invece la voglia di cambiamento. Obama sembra convinto che la determinazione pacifica dei cittadini possa mutare il corso della storia mediorientale più delle azioni militari e delle pressioni politiche, tentate con esiti per ora complessivamente infelici dal suo predecessore George W. Bush. Si spiega così la nuova insistenza sui risultati del soft power, con una rinnovata attenzione agli effetti dell’istruzione e della diffusione della cultura democratica. In Europa siamo convinti da tempo della bontà di questo approccio; ma ci è anche chiaro che esso richiede tempi lunghi, credibilità e pazienza. Nel turbinio di un cambiamento che mostra ciò che gli arabi non sopportano più, ma fatica a individuare quale progetto politico essi vogliano, bisogna invece aspettarsi scelte repentine e prepararsi a fasi di instabilità per nulla pacifiche. La ripresa degli sbarchi di massa di questi giorni è solo un’avvisaglia di quanto potrebbe succedere su scala ben maggiore. Spenti i fuochi della rivolta, ci si accorgerà di quanto accidentato sembra essere ancora il cammino verso nuovi sistemi politici capaci di rappresentare tutte le comunità di quegli Stati.
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