giovedì 26 maggio 2011
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Di fronte alle Camere riunite, Barack Obama, l’uomo venuto dal Pacifico (the pacific man) ha ribadito con forza quanto egli reputi indispensabile la relazione trans-atlantica. Lo ha fatto nella capitale britannica, dove questo legame assume i toni propri della special relationship tra le due più grandi e più antiche democrazie occidentali; ma l’omaggio reso alla relazione particolare che lega gli Stati Uniti alla Gran Bretagna ha costituito solo il primo passo di un discorso tutto all’insegna dell’inclusione, completamente privo di qualunque accento sciovinistico o arrogante. Cementata nella guerra contro il nazifascismo, ha ricordato il presidente, l’alleanza tra Washington e Londra ha retto la sfida della storia perché ha saputo chiamare a raccolta intorno a sé gli altri Paesi dell’Europa libera nella lotta al comunismo, costruendo quel concetto politico (e non razziale o geografico) di Occidente che si è fondato sulla condivisione dei valori della libertà, della dignità umana e della democrazia e non sulla semplice paura della concreta minaccia sovietica. In tempi in cui all’interno dello stesso Occidente sembrano riaffacciarsi ansie e timori che talvolta assumono i toni della xenofobia, Barack Obama ci ha rammentato che è stata l’apertura, la ricerca di condivisione e l’abbandono di ogni pretesa e insostenibile superiorità sul mondo a fare grande l’Occidente, a metterlo in grado di costruire quell’insieme di regole, istituzioni e principi all’interno dei quali altri Paesi hanno potuto crescere e svilupparsi. Il fatto che oggi i cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina) crescano all’interno di questo mondo plasmato dalle regole che l’Occidente seppe realizzare è forse la più grande ragione di fierezza che possiamo vantare, come eredi di quegli uomini che seppero vedere tanto lontano. Si conferma un uomo di visioni forti il presidente americano: e questo è sicuramente un bene in un momento in cui la folla di eventi ai quali ci troviamo ad assistere o a partecipare attivamente rende così difficile effettuare previsioni. La grandezza dei Padri fondatori – tanto degli Stati Uniti quanto dell’Alleanza Atlantica – fu soprattutto quella di saper guardare avanti, molto al di là del loro orizzonte temporale, provando e riprovando a realizzare quelle visioni che ne alimentavano l’elan vital. E sulla loro capacità di guardare in avanti, a un futuro di cui volevano essere artefici per quanto immane potesse apparire l’impresa, stette la loro forza. «Il tempo per la nostra leadership è adesso», ha affermato Obama, rigettando le ipotesi di un declino del ruolo occidentale e americano nel mondo. Lo ha fatto ribadendo che la crescita degli "altri" non comporta necessariamente il nostro tramonto. Lo ha fatto anche rendendo omaggio alla straordinaria primavera araba, destinata a durare decenni, e alla fine a prevalere sulle forze della tirannide e dell’oscurantismo. Nel fare ciò il presidente ha sapientemente voluto tracciare un ideale parallelo tra queste rivoluzioni e le grandi rivoluzioni all’origine della libertà politica occidentale del 1688, del 1776 e del 1789, sottolineando che l’aspirazione alla libertà e alla dignità è un afflato comune a ogni essere umano e presente in ogni cultura. E affermando che responsabilità dell’Occidente è contribuire alla protezione dei semi di libertà che le rivoluzioni arabe spandono, affinché possano diventare germogli di un mondo migliore perché più libero. Il presidente ha dimostrato nuovamente di essere un grande oratore, capace di parlare come pochi altri ai cuori europei e americani. Vedremo come il suo discorso sarà accolto altrove, soprattutto in quel mondo islamico cui ha reso omaggio e cui ha concesso una straordinaria apertura di credito, ma nelle cui orecchie risuonano ancora le parole parzialmente deludenti di quello sul Medio Oriente tenuto pochi giorni fa.
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