mercoledì 9 febbraio 2011
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Il giudice non è una star del cinema o della tv, dovrebbe finire sui giornali (con nome e cognome, non di più) soltanto quando emette una sentenza o comunque un provvedimento degno di nota. E, in negativo, se commette reati o incappa in sanzioni disciplinari per aver disonorato la toga. La casistica, al netto degli eventi ufficiali, potrebbe esaurirsi qui: né l’amministrazione della giustizia, né il diritto del cittadino a una corretta e completa informazione ne risulterebbero danneggiate. Anzi, forse è vero il contrario. Si tratta di una regola che «non si può imporre per legge», come ha giustamente notato il vicepresidente del Csm Michele Vietti. Ma la necessità di conformarvisi, in uno Stato di diritto che voglia definirsi tale, dovrebbe apparire di un’evidenza solare. Così come il fatto che il problema non riguarda soltanto i magistrati ma anche – per la loro non piccola parte di responsabilità in certi clamori mediatici che avvolgono i fatti di giustizia – i giornalisti e la classe politica.Eppure, nell’arco di appena dieci giorni, proprio due alti magistrati, come Vitaliano Esposito, procuratore generale presso la Corte di Cassazione, e ieri Pasquale de Lise, presidente del Consiglio di Stato, hanno sentito il bisogno di salutare il nuovo anno giudiziario esortando i colleghi a «riserbo, equilibrio e prudenza» il primo, a «equilibrio, serenità e sobrietà di comportamenti» il secondo. A completare il quadro, aggiungiamo il monito del primo presidente della Cassazione Ernesto Lupo durante la cerimonia del 28 gennaio: «L’esercizio dell’attività giudiziaria e giurisdizionale è liberamente valutabile, ma va ribadito che i processi si svolgono nelle sedi proprie, dinanzi agli organi giurisdizionali e che il sistema processuale assicura le più ampie facoltà di ricorso e di impugnazione, a garanzia della compiuta applicazione delle norme di diritto sostanziale e della piena osservanza delle regole procedimentali». Un modo elegante per dire no ai processi mediatici. Il combinato disposto di questi tre interventi dimostra che la regola di cui sopra viene spesso e volentieri infranta. Succede quando, come in queste ore, una richiesta di giudizio per il presidente del Consiglio non ancora presentata al gip viene anticipata a mezzo comunicato stampa. Succede quando magistrati che guidano importanti uffici giudiziari o oscuri pm in cerca di notorietà rilasciano dichiarazioni per commentare provvedimenti al vaglio del Parlamento o magari soltanto annunciati dal governo. Succede quando un procuratore antimafia aderisce a una pubblica manifestazione di partito contro il premier. Succede, allo stesso modo, quando una troupe televisiva pedina un magistrato a passeggio per farlo apparire eccentrico a causa del colore dei suoi calzini. Succede quando un giornale ripesca gli atti di un procedimento disciplinare, vecchio di anni, a carico di un procuratore aggiunto e lo sbatte in prima pagina per (s)parlare degli «amori proibiti» dello stesso. Succede, ancora, quando una procura della Repubblica allega ben 600 pagine di atti, traboccanti d’intercettazioni e di dettagli pruriginosi sulle notti del capo del governo, a un semplice decreto di perquisizione e li fa viaggiare tra Milano e Roma, ben potendo immaginare che, per un canale o per un altro, finiranno sulle prime pagine il giorno successivo. È cominciato a succedere, se ben ricordiamo, ormai quasi vent’anni fa, quando un gruppo di pm sulla cresta dell’onda si lasciava fotografare in pose che ricordavano i sette samurai di Akira Kurosawa o i magnifici pistoleri di John Sturges. Eroi, rivoluzionari. Non troppo tempo prima, però, un magistrato certo non incline al protagonismo ebbe a dire che «la cosa più rivoluzionaria» che un giudice può fare «è semplicemente applicare la legge e punire il colpevole». Si chiamava Giovanni Falcone e si riferiva alla sua Sicilia infestata dalla mafia. Mandiamo giù questa pillola di saggezza, forse il Paese ne trarrà beneficio.
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