martedì 14 settembre 2010
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Un coro di unanime compiacimento sta salutando in queste ore da ogni parte del mondo l’esito del referendum sulle riforme costituzionali che si è svolto domenica in Turchia: con una percentuale netta che sfiora il 58%, e un’affluenza record di oltre il 77% degli aventi diritto, gli elettori si sono pronunciati a favore di un pacchetto di 22 emendamenti costituzionali proposti dall’Akp, il partito filo-islamico moderato del premier Tayyp Erdogan. In un prossimo futuro i poteri dell’esercito saranno limitati, la Corte costituzionale e la magistratura ordinaria non saranno più una casta intoccabile e soprattutto il cittadino turco godrà di una serie di aperture sui diritti civili che – per lo meno sulla carta – avvicinano ulteriormente la Turchia alle democrazie occidentali con la possibilità, per ora ancora abbastanza remota, che quel processo di avvicinamento e forse di adesione all’Unione Europea si rimetta in moto.Chi parla di una svolta epocale, dunque, non ha torto. Questo 12 settembre potrà essere giustamente ricordato come il crepuscolo del kemalismo e la fine di un potere inossidabile, quello dell’esercito e dell’Alta Corte, che durava da decenni: a trent’anni esatti dall’ultimo colpo di Stato dei militari (guardiani supremi di una "laicità" tenacemente – e spesso anche ferocemente – propugnata da Kemal Atatürk), il referendum toglie ai generali e alle toghe molti degli strumenti con cui finora avevano, sorvegliato, controllato e incanalato l’evolversi del Turchia moderna.A beneficiarne è il partito del presidente Gül e del premier Erdogan, usciti da questo referendum con una poderosa investitura popolare che prefigura un terzo trionfale mandato per il primo ministro. Non a caso in otto anni l’economia turca è cresciuta a ritmi cinesi, indifferente alla grande crisi dei mercati internazionali, ma soprattutto la leadership di Erdogan e del suo ministro degli Esteri Davutoglu ha spostato vigorosamente la barra geopolitica del Paese: deluso dalle resistenze europee all’ingresso di Ankara nella Ue, sensibilmente raffreddato nello spirito atlantico (per il quale la Turchia era stata per decenni una pedina fondamentale nella Nato) e non più in così buoni rapporti con Israele, Erdogan sta vellicando da mesi quella mai sopita nostalgia neo-ottomana che vuole Ankara prima inter pares in quel quadrante in cui si affacciano Iran, Iraq, Siria, Armenia, Georgia, Libano, con la non dissimulata ambizione di diventare il centro di influenza e di equilibrio per tutta l’area che va dal Caspio fino alla penisola arabica, e un domani fino al Maghreb.Ma se il plebiscito di domenica lascia ben sperare in un’evoluzione democratica, ancora molti sono gli interrogativi e le questioni irrisolte. È vero, non sarà più reato criticare il kemalismo, i cittadini saranno giudicati da un tribunale civile e non più militare, ma resta l’articolo 301 del codice penale, che punisce chi osa parlare del genocidio armeno, così come fra le aperture ai diritti civili ce n’è una assai sibillina, nascosta all’ombra di una osannata emancipazione femminile: quella cioè che porterebbe alla rimozione del divieto di indossare il velo islamico nelle università. È l’Anatolia profonda, il grande corpo silenzioso che si riconosce nell’Akp e che Erdogan – califfo moderato, ma orgogliosamente islamico e sunnita – sta traghettando passo dopo passo nella modernità allontanandosi sempre più dalla laicità coatta della cultura kemalista. Il che non significa che quella cultura sia svanita nelle urne referendarie: il Paese è profondamente diviso, quattro turchi su dieci sono contrari a sovrapporre Stato e moschea, in molti temono – senza più lo schermo della Corte costituzionale le cui nomine d’ora in poi saranno politiche – un’islamizzazione strisciante. Ma la Turchia è e rimane un prezioso laboratorio dove si sperimenta – se pure in modo brusco e spesso controverso – il dialogo fra occidente e islam. È una speranza (e un vantaggio) per tutti.
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