mercoledì 12 novembre 2008
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Il brutto delle campagne elettorali è che prima o poi finiscono, e il vincitore si trova a dover affrontare i nodi delle situazioni reali, spesso molto più intricate di come erano presentate negli slogan. Ciò è particolarmente vero per Barak Obama, verso il quale vi sono fortissime aspettative, tanto in patria quanto all'estero. Fra i molti problemi che egli si troverà a dover affrontare, quello del Medio Oriente è certo uno dei più complicati. L'Amministrazione Bush " in questi otto anni " ha riversato un fiume di attenzioni, uomini, mezzi e fondi in questa regione. Ma non si può certo dire che Obama raccolga oggi un'eredità invitante. A livello di masse popolari arabe e mediorientali l'anti-americanismo e l'anti-occidentalismo non sono mai stati così forti, compresi i Paesi che maggiormente hanno beneficiato degli aiuti finanziari e politici statunitensi (Egitto e Pakistan fra tutti). Mentre anche a livello geo-politico e geo-strategico il ruolo americano si è indebolito. Nonostante le azioni militari dirette, o forse proprio come conseguenza dei cattivi risultati militari ottenuti, il peso di Washington nell'area sembra essersi ridotto, e i suoi nemici storici (l'Iran in primis) sono più forti ora di otto anni fa. Obama ha insisto sulla necessità di togliere truppe dall'Iraq " ove si è assistito a un netto miglioramento dello scenario di sicurezza (benché la stabilizzazione resti lontana) " per impiegarle in Afghanistan contro i taleban. Una ricetta forse semplicistica: in realtà, non si tratta solo di spostare forze logorate per dispiegarle in un altro terreno impegnativo, ma di rilanciare l'intero sforzo della comunità internazionale e della Nato in quel Paese, compresi gli aiuti alla ricostruzione. Cosa non facile in un quadro di crisi economica e finanziaria come l'attuale. Sull'Iran, il nuovo presidente ha detto di essere pronto a intavolare trattative dirette. Un passo avanti rispetto all'atteggiamento di Bush, che per anni ha rifiutato ogni minima apertura verso Teheran. Ma se si vuole risolvere la crisi legata al programma nucleare di quel Paese, il problema non è essere disponibili a parlare, ma avere nuove offerte " un mix di bastone e carota " che risultino più convincenti di quelle più volte presentate dall'Europa e rigettata da Ahmadinejad. E ciò senza sollevare i timori degli alleati arabi del Golfo, preoccupati che la nuova linea possa tradursi in un'ulteriore crescita del peso regionale degli iraniani. In ogni caso, nel giugno 2009 vi saranno le elezioni presidenziali in Iran: è arduo immaginarsi che in campagna elettorale (l'Iran è uno dei pochi Stati mediorientali ove il presidente le elezioni deve vincerle davvero) ci si possa arrischiare a parlare con il "grande Satana" americano. Sul tavolo vi è infine il processo di pace fra israeliani e palestinesi, incancrenitosi da tempo. Lo scorso anno, più per disperazione che per convinzione, Condoleezza Rice cercò di rilanciarlo con il vertice di Annapolis. Da allora, ben poco è stato fatto: la perdita di prestigio dell'Amministrazione Bush, la crisi politica interna in Israele " nuovamente verso elezioni politiche anticipate " e l'irrisolta diarchia in campo palestinese fra il presidente moderato Abu Mazen e i radicali di Hamas non sembrano favorire iniziative a breve termine. Tuttavia, Barack Obama ha dalla sua la forte discontinuità con il suo predecessore e un evidente credito personale. Alcune decisioni già preannunciate per i primi cento giorni dopo l'insediamento come, ad esempio, la chiusura di Guantanamo e la fine delle incursioni non autorizzate di corpi speciali nei Paesi regionali possono spingere i vari attori a una maggiore flessibilità. In fondo, come si dice spesso negli ambienti diplomatici, avere successo in Medio Oriente non significa risolvere i problemi, ma semplicemente non peggiorarli.
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