È vero: il bene comincia dentro di noi e, se è autentico, apre agli altri e salva
sabato 4 aprile 2020

Gentile direttore,
prendo spunto da una considerazione di Boccaccio che questo tempo di pandemia mi ha riportato alla mente. Scriveva, dunque, il nostro Autore che dopo la peste, a tempo debito, potremo riprendere a vivere come prima. Mi colpisce questo a tempo debito: mi fa pensare alla vita come a un debito impagabile, un debito assoluto. Penso a «qualcosa nella vita che è più prezioso della vita». Debito assoluto, sì, a mio parere anche nel senso indicato dal celebre «ama il prossimo tuo come te stesso». In queste settimane di "clausura" per resistere alla pandemia queste parole possono coniugarsi in un “ama quanto c’è di più prossimo in te stesso”, per ricordarci che l’uomo ipermoderno non è più abituato a stare “solo” cioè accanto a sé stesso, sapendo ascoltare e accogliere, amando dunque, anche quanto di sé gli risulta fastidioso e addirittura estraneo. Il lamento sulla solitudine o sull’isolamento mostra, più che la sofferenza, l’insofferenza verso un’attitudine in via di estinzione.

Giancarlo Ricci, Milano


Lo ammetto, gentile dottor Ricci, non mi risulta naturale pensare al comandamento dell’amore del prossimo come rivolto, con forza, anche al rapporto con se stessi. Ma accetto la sua provocazione. Non c’è dubbio che in quel comandamento antico e nuovo l’amore per sé è la misura dell’amore per l’altro ed è illuminato dall’amore di Dio. Ed è un fatto che non è sempre facile volersi davvero bene. Così come è un fatto che il bene o comincia dentro di noi o non comincia affatto. Dunque, incammindoci per questa strada possiamo arrivare a dare carne e sangue a una grande verità. E a salvare la nostra anima.
Le confesso, gentile e caro amico lettore, che a volte anch’io ho la sensazione che colui (e colei) che lei chiama «l’uomo ipermoderno» non sappia davvero amare tutta la propria vita, con le sue armonie e disarmonie, con la sua frenesia e le sue solitudini, volgendola al bene, cioè aprendola a Dio e agli altri. Ma non contano le mie sensazioni, conta che questo dobbiamo imparare a fare sino all’ultimo giorno della nostra esistenza. Conta che questo rende piena la nostra umanità e ci fa stare bene con noi stessi e con chi ci sta accanto e ci mette in giusta relazione con il mondo che anche a noi è affidato. Se estinguessimo questo anelito, non varrebbe la pena di combattere il male, quello di oggi e quello di sempre. E non verrebbe mai, dopo quel «tempo debito» di cui lei parla, un tempo dovuto, che non è semplicemente quello «di prima», ma un tempo davvero nuovo. Un tempo convertito, cioè cambiato nel profondo. Un tempo in cui l’uno all’altro non saremo più untori, ma fratelli. Questo è il lavoro che ci tocca q
ui e ora, in questo tempo ammalato. Questa è la nostra speranza.


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