sabato 7 maggio 2016
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Invoco Immanuel Kant: che, in “Che cos’è l’illuminismo”, rivendicava, anche per i funzionari dello Stato, il «fare uso del proprio intelletto» per contribuire a formulare proposte di riforma delle leggi. Non è solo il diritto di pensare ed esprimere il proprio pensiero che deve essere garantito ad ogni cittadino. Secondo il filosofo tedesco, è qualcosa di più: è quasi un dovere, che il servitore dello Stato ha, di mettere la sua esperienza e competenza tecnica a disposizione del miglior funzionamento dell’amministrazione. Negare a un operatore del diritto, che ogni giorno applica la legge, di esprimere la propria opinione su possibili riforme dei codici, sarebbe come negare al medico, che quotidianamente lavora in un ospedale, di dare consigli e suggerimenti sulla riforma della sanità. Ugualmente, come si può contestare a un giudice il diritto di manifestare il proprio pensiero anche su materie più “sensibili”, quali il diritto di famiglia, la bioetica, la tutela dei minori, le adozioni? E dunque, a maggior ragione, perché un magistrato non potrebbe discutere pubblicamente delle riforme della Costituzione, che è la legge suprema cui ha giurato fedeltà? Ma, chiarito questo punto, mi sia consentito anche invocare il mio maestro Alessandro Galante Garrone; il quale ci ricordava che nell’espressione del proprio pensiero il magistrato deve «avere, nelle forme, un self control particolare». Spiegando che, nei suoi interventi esterni, «il giudice deve evitare qualunque atteggiamento che lo faccia apparire legato ad una piuttosto che ad un’altra parte, o che possa far sorgere, nella persona che da quel magistrato si trova ad essere giudicata, l’impressione, seppure erronea, di una pregiudiziale tendenza alla simpatia o all’antipatia». E – in piena epoca post Mani Pulite – scriveva: «Soprattutto negli anni scorsi, ho trovato qua e là un’imprudente accentuazione di passione politica unilaterale da parte di qualche giudice» (“Il mite giacobino”, 1994, pp. 45-46). Gli anni trascorsi da allora a oggi non hanno fatto altro che confermare quelle preoccupazioni. Tenendo ferma questa lezione, il dibattito in corso sulla riforma costituzionale deve rimanere ancorato al merito delle modifiche già approvate dal Parlamento, ai limiti che si ritengono di intravedervi, alle soluzioni proposte e ai problemi che ne potrebbero derivare. Rifuggendo da atteggiamenti di schieramento, a logiche da amico/nemico. Senza farsi trascinare in personalizzazioni che pure molti vorrebbero imprimere. Senza trattare come «nemici della democrazia» o «nemici della modernità» coloro che sostengono tesi opposte. Senza pensare di dover fermare i «barbari alle porte». Ma anche senza pensare che chi nutre perplessità sulle modifiche proposte sia un «nemico del cambiamento». Demonizzare chi la pensa diversamente da te può servire a suscitare l’applauso della platea. Ma non è mai stato utile alla crescita democratica del Paese.
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