martedì 7 giugno 2016
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Musulmano pienamente dentro l’Occidente e la sua libertà Cassius Clay nel 1964, Roger Garaudy nel 1982. Due indizi non sono una prova, è vero. Ma se aggiungiamo a questo piccolo elenco i nomi di Maurice Béjart e di Cat Stevens il quadro si fa più complesso, più convincente. Il pugile e il filosofo, il coreografo e il cantautore: tutti convertiti all’islam sia pure in modi e per ragioni diverse, in un periodo che va dalla metà degli anni Sessanta ai primi anni Ottanta. Ieri e l’altro ieri, ma abbastanza indietro nel tempo per mettere in dubbio uno dei presupposti su cui si basa, dall’11 settembre 2001 in poi, la retorica del “noi contro loro”: quello, per intenderci, secondo cui il musulmano sarebbe l’assolutamente altro, l’irriducibile all’Occidente. Nella storia e nella cultura occidentale, al contrario, l’islam è presente da molto tempo, e non soltanto per via dell’algebra, dell’introduzione dello zero e delle altri ragioni che si è soliti addurre. Per motivi che oggi rischiano di sfuggirci, frastornati come siamo dalle notizie provenienti dal fronte di Daesh e dalla macabra contabilità del terrorismo globalizzato, mezzo secolo fa era possibile (possibile, non prevedibile né tanto meno scontato) che un giovane eroe dello sport, nato e cresciuto con un “nome da schiavo”, aderisse a quella peculiare forma di fede musulmana che fu la Nation of Islam di Malcolm X in modo da rivendicare così la sua personalità di uomo libero. Entrava in scena Muhammad Ali, il benedetto e il benvoluto, renitente alla leva non per pacifismo, ma perché quella in Vietnam era una guerra voluta dagli Usa, nella cui politica il ragazzo prodigio del Kentucky non voleva più identificarsi. Era una scelta militante la sua? Certo che sì. E politicamente antagonista, non si discute. Un modo per contestare nel modo più radicale un “sistema” che, in quegli stessi anni, era messo sotto attacco dal marxismo movimentista e dalla vasta, contraddittoria galassia delle controculture. Ma era, nello stesso tempo, una scelta che maturava all’interno della società alla quale si opponeva. Per strano che possa apparire, era una conferma della tolleranza su cui la modernità occidentale imperfettamente ma concretamente si fonda. In queste ore, tra la commozione per la morte e l’attesa dei funerali, il peculiare islamismo di Muhammad Ali è entrato nel dibattito delle elezioni presidenziali americane. Era stato lui stesso, all’epoca dell’attentato contro le Torri Gemelle, ad affermare che quell’atto di violenza non poteva essere opera di un buon musulmano. Vero è che nel frattempo la sua visione spirituale si era affinata, dall’adesione all’islam rivoluzionario di Malcolm X era passato – anche attraverso il ripudio dell’estremismo di cui è portatore l’attuale leader di Nation of Islam, Louis Farrakhan – alle suggestioni sapienziali del sufismo, avvicinandosi così, almeno in parte, alle posizioni del pensatore francese Garaudy, del danzatore Béjart, della popstar Cat Stevens. Convertendosi all’islam Garaudy aveva preso il nome Ragaa, Stevens quello di Yusuf Islam. Casi in buona misura elitari e sotto molti aspetti clamorosi, ma comunque interni a un dibattito che oggi sembra dimenticato. La scrittrice Joyce Carol Oates, che di boxe e molto altro è ottima conoscitrice, è persuasa che non si possa parlare di Muhammad Ali senza prendere in considerazione la sua spiritualità. Che non si identifica, in senso stretto, con l’islam, ma che pure all’islam rimane intimamente collegata. La sua storia, americanissima, è in un fondo un capitolo – tutt’altro che trascurabile – della vicenda altrimenti invisibile di cui sono stati protagonisti i musulmani d’Occidente. Anche su questo, forse, dovremmo fermarci a riflettere, per evitare di arrenderci allo schema brutale della sottomissione.
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